I suoni e la roccia. La musica lucana tra il sacro e il rurale

Difficile individuare una musica tipica della Basilicata, quasi quanto pretendere di riuscire a dare un nome a ogni sasso di Matera. Diversamente da altre regioni italiane, più definite e definibili dal punto di vista musicale, è quasi impossibile trovare un brano o una raccolta che riassuma le caratteristiche proprie del territorio, distanziandolo da quel calderone di suoni che compongono la tradizione del mezzogiorno.

Più facile forse descriverne le sonorità che emergono da strumenti antichi, legati alla storia del territorio, ammantati di un’aurea mistica e sacrale, evocanti sensazioni riconducibili agli aspetti rurali di una terra selvaggia. Due in particolare attirano l’attenzione per il loro suono e per le sensazioni che esso suscita: il cupa cupa e la ciaramella.

Il primo strumento viene descritto anche nel capolavoro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli:

Rudimentale, fatto di una pentola o di una scatola di latta, con l’apertura superiore chiusa da una pelle tesa come un tamburo. in mezzo alla pelle è infisso un bastoncello di legno. Soffregando con la mano destra, in su e in giù, il bastone, si ottiene un suono basso, tremolante, oscuro, come un monotono brontolio. Tutti i ragazzi, nella quindicina che precede il Natale, si costruivano un cupo cupo, e andavano, in gruppi, cantando su quell’unica nota di accompagnamento, delle specie di nenie, su un solo motivo.

Il suono cupo, monocorde di questo strumento evoca un’atmosfera grave, che sembra provenire dalle profondità della terra e rimbalzare tra le rocce evocando antichi misteri.
Allo stesso tempo esso rimanda ad aspetti più crudi legati al passato e a una ruralità succube del degrado e della povertà, riportandoci alla situazione del meridione, e della Lucania in particolare, descritta dalle meravigliose pagine di Levi.

Una sensazione diversa suscita invece la ciaramella. Uno strumento a fiato da sonorità molto più scanzonate e allegre, legato agli strumenti a oncia e in particolare alla zampogna. Si dice che quest’ultima sia nata dall’unione di due ciaramelle; entrambi gli strumenti vengano suonati nel periodo della novena di Natale da zampognari itineranti.

La zampogna è il suono tipico della fanfara, dei canti natalizi. Vi è all’interno della cultura lucana un collegamento molto stretto con la religiosità, anche se esso si lega anche ad aspetti mistici che hanno a che fare con la magia e l’arcano e trascendono gli aspetti prettamente cristiani; anzi talvolta finiscono addirittura per canzonarli. Per citarne un esempio prenderemo ancora in prestito l’opera di Carlo Levi, dove troviamo l’accenno a un personaggio molto particolare: il manachicchio.

I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. […] Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso più grande di loro: e guai se lo perdono. […] Sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sottoterra, sanno i luoghi nascosti dei tesori.

Raffigurazione di un monachicchio in preda a fare i dispetti

Questa figura allegra e scanzonata rimanda a un tipo di tradizione popolare che ha nel ricorso al mito la sua vera essenza. Una tradizione di culti antichi e leggende che si perpetuano di generazione in generazione, di famiglia in famiglia. Misteri noti a pochi, celati gelosamente nella roccia, come i tesori nascosti custoditi dai Monachicchi. Allo stesso modo i suoni della Lucania rimangono per lo più sconosciuti e ignoti e a disposizione solo di coloro disposti a prendersi meno sul serio.

Credo che questa idea di spensieratezza sia espressa molto bene dal brano Paese Mio, una traccia della meravigliosa e troppo spesso trascurata colonna sonora confezionata da Nino Rota per il film Rocco e i suoi fratelli; il titolo fa riferimento all’origine lucana della famiglia del protagonista.

Brano iconico, esso è contraddistinto da un tema allegro, quasi una trasposizione musicale della gaiezza e della spensieratezza del monachicchio. Nell’ultima parte riemerge però quel tono triste e quell’atmosfera malinconica legato a un passato che sempre riemerge e sempre grava sul suolo lucano.

Quando vi capitasse di passare per quelle terre conservate nella mente il suono di questi due strumenti e cercatelo in ogni parte di quei luoghi: nell’aria, nei prati, nei boschi ma anche sotto le rocce. Citando ancora una volta Levi:

È inutile frugare a caso la terra: i tesori non compaiono che a colui che deve trovarli. E per sapere dove sono, non ci sono che le ispirazioni dei sogni, se non si ha avuto la fortuna di essere guidati da uno degli spiriti della terra che li custodiscono, da un monachicchio.

Ho 27 anni, una laurea triennale in storia e sto finendo il mio percorso accademico all’Università degli Studi di Milano, dove studio relazioni internazionali. La musica ha sempre fatto parte della mia vita: suono il pianoforte dall’età di 8 anni e strimpello la chitarra da quando ne avevo 14, età in cui tutti ci sentiamo delle rock star. Amo viaggiare, al punto da aver fatto l'Erasmus in Turchia e in Repubblica Ceca.  Sono pigro e adoro perdere tempo per poi essere assalito dai sensi di colpa. Scrivere di musica è per me una bella sfida e un'occasione di mettermi alla prova.

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