La sconfitta in Afghanistan. Tra information warfare e mancata visione macro
Autori dell’articolo: Luigi Luca Borrelli e Cosimo Melella
Il falso mito dell’invincibilità
L’epiteto di Tomba degli Imperi che l’Afghanistan ha assunto negli ultimi decenni appare giustificato, ma in misura minore di quanto si possa ritenere.[1] Che fosse un territorio impervio già dal transito di Alessandro il Grande, che sfidò apertamente gli Achemenidi, è intuibile[2]. Certamente essa appare meno “protagonista” e ostile nella storiografia che contribuì a farne conquistatori prima Gengis Khan e poi Tamerlano, il quale si limitò a inglobarne il territorio nel suo impero[3]. La visione di un Afghanistan terra sepolcrale però sembra essere viziata da uno sguardo anglocentrico. L’Impero britannico rischiò d’impantanarsi in quel territorio in due guerre delle quali la seconda si risolse in misura parzialmente favorevole per gli inglesi. L’intento dei britannici era quello di arginare alcune mire espansionistiche russe[4]. È poi chiara la sconfitta dell’Impero Sovietico consumatosi pressappoco un secolo dopo il transito dei britannici, in un conflitto che impiegò la potenza marxista nel decennio 1979-1989. Guerra che minò gravemente la salute di un già malato colosso destinato a implodere di lì a poco; una sconfitta maturata anche grazie al sostegno d’ingenti aiuti economici statunitensi in funzione antisovietica[5].
È possibile pensare a questa della Nato, a posteriori, come una sconfitta già annunciata. Si sprecano i parallelismi con taluni epiloghi[6] che ebbe la guerra in Vietnam. Oppure sull’Afghanistan paragonato alla Russia in funzione antinapoleonica e poi antinazista. La storia non dice di sole sconfitte, però: quel territorio non mise fine alla concezione universalistica del giovane Alessandro di Macedonia, ad esempio.[7]
Gli achemenidi erano già stati vinti dai greci uniti: proprio a indicare che alla Nato è mancata l’unità cooperativa per divergenze di obiettivi, quindi una pars costruens comune fra gli Alleati che contribuisse alla costruzione del nation building con le quattro operazioni susseguitesi (Enduring Freedom, International Security Assistance Force, Freedom Sentinel e Resolute Support Mission).
La strategia miope degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti sarebbero apparsi poco convincenti su questo punto, e la lunghezza del conflitto non ha giocato a favore[8], dal momento che i talebani hanno saputo, attraverso la dilatazione dei tempi, agire con la strategia per attendere il momento propizio per tornare in auge. Caso vuole che questo sia arrivato a vent’anni esatti dal loro iniziale fallimento[9].
Inoltre agli Usa si rimprovera scarsa lungimiranza anche per contingenze di carattere pratico; in questi vent’anni l’Alleanza Atlantica, in zone limitrofe, si è dovuta cimentare con la questione irachena[10]; e queste non sono state le uniche missioni che hanno visto impegnata la Nato negli ultimi decenni: Operation Active Endeavour, Nato in North Macedonia, The African Union Mission in Sudan[11].
In tutto ciò, è verosimile ritenere che nell’avanzata talebana rientri anche una più ampia consapevolezza dei propri mezzi. Anche se i tabelani sembrano avere una classe dirigente inesperta,[12] il loro ritorno al potere è stato anticipato da una comunicazione accorta, e nel ritorno stesso il gruppo ha rivisto alcune sue posizioni di natura più politica, di ambito anche economico[13].
D’altra parte i talebani avevano già ricoperto ruoli di rilevanza al potere in Afghanistan tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del terzo millennio (1996-2001)[14]. In tutto e per tutto il ripristino del potere oggi in Afghanistan va calcando la linea di estremo rigore conservatore già adoperato negli anni Novanta, ma con differenziazioni. Ad esempio avevano vietato la coltivazione dell’oppio nel 2000[15] ma oggi, col ritorno al potere, la posizione talebana è mutata. L’oppio è oggi venduto nei mercati e rappresenta dal 6% all’11% del PIL del paese, a seconda del raccolto dell’anno[16]. Una cifra altissima. Nel 2020 sono state prodotte in Afghanistan 300 tonnellate di oppio e coltivati 224.000 ettari di papaveri. I talebani producono poi hashish, metanfetamine in cristalli ed eroina[17].
In virtù del fallimento delle operazioni Nato e della caduta del governo di unità nazionale afghano a Kabul, è imperativo comprendere anche il modo in cui i talebani hanno condotto un’incisiva information warfare.[18]
L’information warfare talebana
Nell’era dell’informazione, il progresso ha fatto evolvere la struttura dei media al punto da consentire che il dominio cibernetico divenisse una superficie d’attacco significativa per la propaganda dei talebani. I nuovi media hanno cambiato i modi tradizionali di generare e diffondere le informazioni, rendendo il Pc uno strumento contro le democrazie[19]. Questo sembra essere stato anche il caso dell’Afghanistan.
Nonostante i talebani fossero più deboli del governo, hanno diffuso una propaganda più efficace, in particolare attraverso i social network e le piattaforme di messaggistica (nello specifico un’agguerrita campagna su Twitter)[20]. Con la diplomazia e le operazioni militari sono stati impegnati in una guerra di logoramento nel campo dell’informazioneche incorpora tutte le modalità di comunicazione[21].
Con il crollo del regime talebano nel 2001, la nuova costituzione del 2004 aveva garantito libertà di parola, consentendo l’istituzione di media privati[22]. La capillarità della rete e il numero di utenti è immediatamente aumentato, così come gli sforzi sui social network dei talebani per propagare disinformazione in una guerra volta alla conquista dei cuori e delle menti dei netizen[23].
Entrambe le parti hanno utilizzato ampiamente Twitter, ma i talebani hanno aperto, astutamente, anche canali per comunicare con i media e i giornalisti: WhatsApp, Telegram, Signal e altri servizi di messaggistica breve per diffondere avvenimenti legati al conflitto. Il governo non ha saputo né potuto censurare i social media proprio a causa della costituzione[24]. Questo genere di propaganda non è un fenomeno nuovo: tuttavia, gli Usa, nell’Alleanza non sono riusciti a rendersi credibili agli occhi della popolazione afghana nell’utilizzo di Twitter[25]. La pratica di diffusione della disinformazione sui social, condotta senza una grande quantità di capitale e mezzi a disposizione, in una società con alto tasso di analfabetismo, ha avuto un effetto fuorviante su tutta la popolazione.
Poiché le piattaforme online non prevedono controlli per distinguere tra un’informazione autentica e una fasulla, chiunque abbia facile accesso alla rete può far uso di pratiche di disinformazione. I talebani hanno sistematicamente e capillarmente diffuso informazioni talvolta anche condivise dai media mainstream[26].
I tweet dei talebani sono stati considerati alla stregua di titoli giornalistici. E in Afghanistan, con mancanza di educazione mediatica e informativa, la popolazione è apparsa vulnerabile agli effetti immediati delle influence operations[27]. La presa del potere da parte dei talebani nell’estate del 2021 avvalora la tesi del giornalista Walter Lippmann, secondo cui la propaganda è un organo regolare del potere popolare[28].
Ecco dunque come viene utilizzata la propaganda nel cyberspazio: simili ai mass media, i social network sono usati nei conflitti, e il teatro afghano non fa eccezione. I talebani hanno utilizzato attivamente piattaforme online e diffuso disinformazione che raggiungesse gli obiettivi preposti[29].
L’osservazione della discrepanza in termini di numero di vittime tra le piattaforme social e i media mainstream mostra tratti propagandistici[30]. Ciò è previsto sulla base della teoria della propaganda: con una differenza strutturale rispetto ai mass media, i social network diventano mezzi ottimali per chi ha risorse limitate. In altre parole, sono un potenziale asset dei più deboli e meno ascoltati, in questo caso i talebani, i quali con risorse relativamente limitate hanno pubblicato e condiviso più informazioni in termini di frequenza rispetto a quelle del governo[31].
I media mainstream devono essere sempre in grado di verificare e autenticare i contenuti relativi alla guerra per contrastare la disinformazione, verificando le proprie fonti.
Mancanza di visione comune
I talebani sono tornati al potere grazie alla popolarità che hanno costruito, basata sul presupposto che per vincere un conflitto prolungato fosse necessario essere percepiti come l’autorità legittima[32]. Ciò non è accaduto finché la popolazione locale non ha chiaramente identificato i problemi nel proprio paese dalla prospettiva portata avanti dai talebani[33]. Il quinto dominio ha svolto e verosimilmente continuerà a svolgere un ruolo significativo nel conflitto e nella pace afghana, è un elemento essenziale per affrontare le nuove minacce e, in quanto tale, va riconosciuto, valutato e analizzato rispetto al contesto di riferimento.
Dopo aver esaminato i metodi utilizzati e le carenze nelle strategie adottate dalla Nato, riassumiamo le lacune identificate. Un elemento importante nell’esperienza afghana è stata la mancanza di chiarezza concettuale su termini chiave come radicalizzazione online[34], ovvero la possibilità per i terroristi di utilizzare internet allo scopo di diffondere la paura tra i nemici o aumentare il numero dei propri seguaci. È mancata l’armonizzazione tra settore privato (aziende informatiche e di social media), pubblico (istituzioni nazionali, forze armate e polizia locale) e la popolazione afghana; la mancata cooperazione è stata un ostacolo significativo al raggiungimento della fiducia reciproca, del coordinamento e della comunicazione a più livelli. Va rammentato che dovrebbe esistere un equilibrio tra il libero utilizzo d’Internet e il rafforzamento delle pratiche di sorveglianza relative ai contenuti terroristici online. Iniziative come il progetto nei Balcani occidentali volto alla sensibilizzazione sul ruolo della Rete aiuterebbero l’Alleanza a evitare gli stessi errori in uno scenario simile a quello afghano[35].
A ciò si aggiunge una necessaria riflessione sulla mancanza di una visione comune e condivisa a lungo termine. Causa di questo è sembrato essere anche una disattenzione degli Stati Uniti nei confronti dei suoi alleati, in particolar modo su talune discrepanze decisionali riguardanti la condotta generale di questa lunga guerra di logoramento. Tale aspetto dà uno spunto di riflessione all’Europa sul rafforzamento del concetto di “difesa europea”[36].
[1] A. Hainy-Khaleeli, Perché dovremmo smetterla di chiamare l’Afghanistan “la tomba degli imperi”, lavoroculturale.org
[2] M. Assalto, Alessandro contro Dario, così si conquista la pace, 28 Settembre 2017, La Stampa online,
[3] Ibidem nota n.1
[4] Ibidem nota n.3
[5] F. Fanuli, L’Invasione Sovietica dell’Afghanistan e l’“Operazione Ciclone”’, Opiniojuris.it
[6] Redazione, Perché Kabul-come-Saigon, 18 Agosto 2021, Il Post.
[7] M. Assalto, Alessandro contro Dario, così si conquista la pace, 28 Settembre 2017, La Stampa online.
[8] Redazione, Afghanistan crisis: 10 mistakes US made in its longest, one of the most expensive wars, The Times of India, 18 agosto 2021,
[9] V. Modebad, Afghanistan under taliban: a new regime poses a Threat to international stability, Journal of Liberty and International Affairs,Volume 8 (1), 2022, Institute for Research and European Studies at www.ejlia.com
[10] La Missione Nato in Iraq nel 2018 è una missione non belligerante che mira a rafforzare le istituzioni e le forze di sicurezza irachene per combattere il terrorismo e stabilizzare il Paese.
[11] Operations and missions: past and present:
[12] V. Modebad, Afghanistan under taliban: a new regime poses a Threat to international stability, Journal of Liberty and International Affairs,Volume 8 (1), 2022, Institute for Research and European Studies at www.ejlia.com
[13] Ibidem nota 10
[14] Ibidem nota 9
[15] Ibidem nota 14
[16] Ibidem nota 15
[17] Ibidem nota n.16
[18] T. Morris S. Hussaini, The Taliban’s Information War: The Tactical Use of Frames, Journal of Information Warfare, vol. 19, no. 4, Peregrine Technical Solutions, Yorktown, 2020, pp. 89–109
[19] cfr. C. Cunningham, Cyber Warfare – Truth, Tactics, and Strategies: Strategic concepts and truths to help you and your organization survive on the battleground of cyber warfare, Packt Publishing, Birmingham 2020.
[20] E.T. Brooking, Before the Taliban took Afghanistan, it took the internet, Atlantic Council, https://www.atlanticcouncil.org/blogs/new-atlanticist/before-the-taliban-took-afghanistan-it-took-the-internet/
[21] Ibidem nota n.18
[22] Ibidem nota n.9
[23] Ibidem nota n. 22
[24] Ibidem nota n.20
[25] Ibidem nota n.24
[26] Ibidem nota n.9
[27]https://ccdcoe.org/uploads/2018/10/Art-08-Influence-Cyber-Operations-The-Use-of-Cyberattacks-in-Support-of-Influence-Operations.pdf
[28] W. Lippmann, Public opinion, Brace & Co., San Diego 1922.
[29] M. Goswami, Fake News and Cyber Propaganda: A Study of Manipulation and Abuses on Social Media, n. 7 New Delhi 2018, pp. 535-544,
[30] Ibidem nota n.29
[31] Ibidem nota n.12
[32] Ibidem nota n.30
[33] Ibidem nota n.14
[34] I. Tatani, Le vie della radicalizzazione islamica, Centro Ricerca Sicurezza e Terrorismo, 2018.
[35] E. Kapsokoli, Cyber-jihad in the Western Balkans, National security and the future, 22 (3), St. George Association, New York, pp. 37-58.
[36] Consiglio dell’Unione Europea, Il ritiro caotico dall’Afghanistan ci obbliga ad accelerare i tempi di una riflessione onesta sulla difesa europea.