Pixel art, com’è nata e a cosa serve

Ci sono domande all’apparenza estremamente banali che in realtà nascondono uno sciame di sfaccettature e contraddizioni. Di che colore è il sole? Perchè agli americani non piace il calcio? Se l’universo è vuoto e infinito, e le stelle sono quindi infinite, perchè il cielo non è pieno di così tanta luce da bruciarci gli occhi?

Che cos’è la pixel art?

Friends of a Journey, di Pierfrancesco Pippo Andresini (Mixedbag)

La prima spiegazione è la più ovvia, e parte dal nome: la pixel art è arte fatta coi pixel. Un pixel è la più piccola unità di misura di uno schermo. Se stai leggendo questo articolo su un computer, avvicinati fino a sfiorare lo schermo col naso e vedrai che l’immagine risulta sgranata: a questa distanza sarai in grado di vedere i singoli pixel che compongono tutto quello che vedi, e che a una certa distanza diventano indistinguibili e offrono un’immagine “completa” (ricorda questa parte, perchè ci ritorneremo). Se stai usando un cellulare, dipende dal modello: molti smartphone moderni hanno pixel di dimensioni talmente ridotte che a occhio nudo diventa quasi impossibile distinguerli.

I concetti su cui si basa la pixel art sfruttano caratteristiche fondamentali della rappresentazione di immagini. Allarga abbastanza qualunque immagine, e sarai in grado di vedere che i pixel non rappresentano esattamente le sue forme ma sono usati per suggerirle. In questo caso, in termini semi-tecnici, il vettore usato per disegnare le lettere viene rasterizzato (convertito da linee a pixel) e viene composta un’immagine più gradevole all’occhio, considerata la distanza dallo schermo.

Se la pixel art è arte arte fatta con i pixel e ogni schermo di uno smartphone, pc o televisore è formato da pixel, questo significa che qualunque immagine digitale è in realtà pixel art? Alla fine, si chiedono in molti, ogni singola immagine digitale è rappresentata da dei pixel. La risposta è no, ma se chiedi a tre pixel artist di darti una definizione di cosa sia la pixel art riceverai tre risposte diverse. C’è chi dice che conta solo la risoluzione, c’è chi sostiene che è valido per lavori in cui spostare un solo pixel causa un netto cambiamento dell’immagine, c’è chi parla di dare un limite al numero di colori. Tutti però sono d’accordo su una cosa: la pixel art parte dai pixel, invece di arrivarci alla fine del percorso. Non si tratta di una fotografia che viene digitalizzata oppure di un disegno fatto su un iPad per comodità; queste sono idee artistiche che alla fine si ritrovano formate da pixel. La pixel art ha invece il pixel come punto di partenza e come punto focale. La pixel art non è formata da pixel, è il pixel.

Owlboy (2016), di D-Pad Studio. Il gioco ha fatto scalpore per l’incredibile qualità della pixel art prodotta per i suoi livelli, qualità che ha richiesto dieci anni di sviluppo per poter creare tutte le illustrazioni necessarie. Fonte: D-Pad Studio

Prima di essere un movimento artistico questa arte è nata inizialmente come una necessità tecnica. La risoluzione dei primi schermi negli anni ’70 era infatti così bassa che, più che poter rappresentare immagini, il meglio che un designer poteva fare era creare qualcosa che potesse vagamente suggerire un’idea del soggetto. E, dato che all’epoca un pixel era talmente grande da poter rappresentare da solo un intero braccio, invece di trarre ispirazione dal puntinismo i designer furono costretti a inventare qualcosa di completamente nuovo.

Se i primi videogiochi come Pong erano quasi completamente astratti e geometrici, basandosi più sull’immaginazione del giocatore che sulla rappresentazione, con il lento aumento delle risoluzioni il problema di come rappresentare qualcosa che avesse un significato trovò risposte sempre più creative. Designer come Susan Kare furono pionieri di questo filone a metà tra arte, design e interfaccia, influenzando lo sviluppo di interi generi spesso senza trarne nessun riconoscimento. Il mondo dei videogiochi infatti, in cui questo filone ha dato il meglio di sé, non ha solo un grosso problema per quanto riguarda le risorse storiche disponibili. L’idea di riconoscere individualmente le persone responsabili per un gioco è relativamente moderna, e non sappiamo (e probabilmente non sapremo mai) chi ha creato alcuni dei personaggi più famosi della storia dei videogiochi.

Il buon vecchio Mario (1983) ha un aspetto quasi interamente dovuto alla necessità, invece che a scelte artistiche. Perchè è italiano? Perchè senza grossi pixel per baffoni e basette era impossibile separare orecchie e naso. Perchè è un idraulico? Per poter usare un solo colore per maglia e pantaloni, facendogli indossare una salopette.

Facciamo un enorme salto in avanti dagli anni ’70 giungiamo ai giorni nostri. Se in origine non c’era differenza tra pixel art e arte normale nel mondo digitale (dato che era impossibile fare altrimenti), al giorno d’oggi ci sono tutte le risorse necessarie per rappresentare immagini estremamente fedeli alla realtà senza dover usare questi trucchi. Allora perchè continuano ad essere pubblicati giochi con questo stile, o direttamente a creare arte che segue questi criteri?

Perchè dalla necessità si è fatto stile. Queste limitazioni hanno creato un vero e proprio filone, visto con amore non solo dai nostalgici ma anche dagli artisti che lo apprezzano per il suo aspetto unico. Particolare e intenzionalmente limitato, questo insieme di stilemi visuali è ormai dotato di vita propria, e non si ispira più a specifici momenti del passato. Il fatto che siano relativamente più semplici da creare e utilizzare, inoltre, di sicuro aiuta.

Pixel art animata di Gerardo “Kirozake” Quiroz

Il mondo dei computer e dei videogiochi è pieno di sottoculture e filoni sviluppati da necessità tecniche, e oggi ne abbiamo vista una. Ce ne sono a decine di cui parlare – ma lo spazio a nostra disposizione è limitato. Ne esploreremo altri in futuro, che vanno dalla musica all’animazione.

Se l’argomento ti affascina, o se sei un artista e vuoi approfondire questo particolare genere, Bitmap Books è un editore inglese che pubblica libri illustrati dedicati a specifiche ere e filoni di pixel art. Se sei più incuriosito dal lato tipografico che abbiamo menzionato in apertura, raccomandiamo Arcade Game Typography: The Art of Pixel Type di Toshi Omigari. Immagine di copertina di Stas Gailunas.

Stefano Zocchi (1992), nato analogico e cresciuto digitale. Laureato in Lettere Moderne e sfociato accademicamente nell'editoria multimediale, scrive per lavoro e per passione di videogiochi e tecnologia, con un particolare interesse per il potenziale narrativo ed economico del settore. A tempo perso crea giochi indipendenti e musica

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