Non c’è tregua per Siria e Libano

Nelle prime ore del 3 novembre Israele ha lanciato una serie di attacchi missilistici verso la periferia di Damasco. Secondo l’agenzia filogovernativa siriana SANA le perdite registrate sarebbero esclusivamente di tipo militare e l’attacco, proveniente dai territori palestinesi settentrionali, avrebbe colpito in particolare l’area di Al Zakyah, nei sobborghi meridionali della capitale. 

Nelle settimane passate Israele si era già reso protagonista di attacchi verso la Siria, bombardando, lo scorso 25 ottobre, il governatorato di Quneitra nella Siria meridionale e lanciando, il 30 ottobre, un attacco missilistico verso obiettivi militari nella periferia di Damasco. Tel Aviv non è nuova ad azioni di questo genere, e dal 2011 sono stati numerosi gli attacchi e i raid in territorio siriano, volti principalmente a colpire a indebolire la presenza di Hezbollah e di milizie filoiraniane. 

Secondo quanto riportato da Al-Arabyia, nel corso della recente visita del premier israeliano Natfali Bennet a Sochi quest’ultimo avrebbe ricevuto, da parte del presidente russo Vladimir Putin, l’autorizzazione a continuare le proprie operazioni militari contro gruppi filorianiani in territorio siriano. Vladimir Putin, principale sostenitore della Siria e del presidente Bashar al-Assad, ha sempre visto in Tel Aviv un interlocutore indispensabile per ragioni commerciali e strategiche. La condiscendenza nei confronti del neo premier israeliano Naftali Bennet va letta come un tentativo di portare avanti il processo di de-escalation in Siria senza scontentare la pretesa israeliana di indebolire la presenza dei principali nemici regionali nell’area, che Tel Aviv vede come una minaccia ai propri interessi. 

Gli attacchi di Israele arrivano a pochi giorni di distanza dall’esplosione che lo scorso 20 ottobre ha colpito un bus che trasportava soldati dell’esercito siriano uccidendo 14 militari proprio a Damasco. L’attentato è stato rivendicato dal gruppo ribelle delle Brigate Qasioun, attivo principalmente nelle campagne che circondano la capitale siriana e che già negli scorsi anni aveva rivendicato attacchi contro il regime e contro le forze alleate. Lo stesso giorno 4 civili avevano perso la vita in un’offensiva dell’esercito siriano a Idlib, nel nord-ovest del paese.

(Reuters)

In Siria è in corso dal 2011 uno dei conflitti più sanguinari e logoranti del secondo dopo-guerra, e secondo recenti stime delle Nazioni Unite le condizioni di vita del 90% della popolazione sarebbero ormai al di sotto della soglia di povertà. In base all’accordo firmato da Erdogan e Putin lo scorso 5 marzo 2020, il governatorato di Idlib, unica area ancora in mano alle forze ribelli, sarebbe sottoposto a un cessate il fuoco che è stato poi esteso nel corso dei colloqui che si sono tenuti a Sochi e febbraio. La tregua è stata tuttavia violata più volte sia da Damasco che dai ribelli.

Parallelamente, negli scorsi giorni le IDF (Israel Defense Forces) hanno avviato un’esercitazione militare nel nord di Israele, non lontano dal confine con Libano e dalla blue line che separa i due paesi dal ritiro delle forze di occupazione israeliane nel 2000. L’esercitazione ha principalmente lo scopo di simulare un conflitto su larga scala con Hezbollah e di mettere pressione sul Partito di Dio. L’ultima escalation tra la milizia sciita libanese e Tel Aviv risale allo scorso agosto e ai giorni immediatamente successivi al primo anniversario dell’esplosione del porto di Beirut. In quell’occasione Hezbollah aveva risposto agli attacchi israeliani alle Fattorie di Sheba’a con il lancio di alcune dozzine di missili, per lo più intercettati dal sistema difensivo dell’Iron Dome. 

La posizione di Hezbollah è sempre più complessa e divisiva, e il movimento, nato nel 1982 in risposta all’invasione israeliana, viene sempre di più visto come un’enclave iraniana in Libano. A partire dal 2005 lo spettro dei partiti libanesi è diviso i due fronti contrapposti. Da un lato, l’Alleanza pro-siriana dell’8 marzo è guidata dalla stessa Hezbollah e si basa sull’intesa con l’altro partito sciita Amal e con il principale partito cristiano maronita (il Free Patriotic Movement del presidente Aoun, che dal 2006 è il più importante alleato di Hezbollah nel paese). Sul fronte opposto l’Alleanza del 14 marzo, composta dal Movimento Futuro dell’ex premier Saad Hariri, dalle Forze Libanesi del criminale di guerra Samir Geagea e dal partito druso di Walid Joumblatt, si fonda sulla comune opposizione all’ingerenza siriana in Libano.

Nelle scorse settimane, nel corso di una dimostrazione di militanti di Hezbollah che contestavano la politicizzazione delle indagini sull’esplosione del porto condotte dal giudice Tarik Bitar, Beirut ha visto riemergere i fantasmi del passato. Il lungo scontro a fuoco che ha avuto luogo nei pressi della rotonda di Tayouneh, nei pressi di Ain al Remmaneh e delle strade che nel 1975 videro lo scoppio della guerra civile, ha infatti fatto suonare un campanello di allarme per molti. La dinamica dell’accaduto resta da chiarire, ma con ogni probabilità cecchini delle Forze Libanesi di Geagea hanno attaccato i militanti del Partito di Dio, a loro volta armati.

Contestualmente, l’alleanza tra Hezbollah e il Free Patriotic Movement risulta indebolita dalle vicende delle ultime settimane. Il partito cristiano, che ha la sua base nei quartieri Est di Beirut maggiormente colpiti dall’esplosione, non vede di buon occhio la presa di posizione del movimento sciita nei confronti delle indagini sui fatti del 4 agosto 2020.

La comune ostilità nei confronti dell’Iran e del partito di Dio è stato uno dei fattori che ha favorito l’avvicinamento diplomatico tra Israele e le monarchie del Golfo. Gli attacchi di Israele in Siria sono inevitabilmente collegati al ruolo e alla postura che Hezbollah occupa nello scacchiere regionale. Proprio negli ultimi giorni, la messa in onda da parte dell’emittente Al Jazeera di un discorso del neo ministro dell’Informazione libanese George Kordahi (risalente, per la verità, allo scorso agosto e quindi precedenti all’assunzione dell’incarico di ministro da parte di Kordahi) ha aperto una grave crisi diplomatica.

(A News)

Nel suo discorso il ministro attaccava duramente il coinvolgimento saudita in Yemen, definendo “assurdo” il conflitto e sostenendo la legittimità delle forze Houti a difendersi dall’invasione saudita. In poche ore l’Arabia Saudita ha richiamato il proprio ambasciatore da Beirut, invitando poi la controparte libanese a lasciare il paese. L’esempio di Ryad è stato prontamente seguito da Kuwait e Emirati Arabi Uniti, mentre il Bahrein ha invitato i propri cittadini nel paese dei Cedri a fare ritorno in patria. Il premier Najib Mikati ha invitato il ministro a dare le dimissioni “per salvaguardare l’interesse del paese”, ma la posizione del multimiliardario di Tripoli si è indebolita e c’è chi teme che si possa arrivare alle dimissioni.

Già nei mesi passati i rapporti tra Arabia Saudita e Libano si erano fatti tesi in seguito al ritrovamento di un carico di anfetamine captagon all’interno delle casse di frutta libanese esportata verso il Golfo. Ora, la decisione saudita di bloccare le importazioni dal Libano rischia di mettere in ulteriore crisi l’economia di un paese che sta vivendo una delle peggiori crisi finanziarie della storia contemporanea. Le rimesse delle centinaia di migliaia di libanesi che vivono e lavorano nel Golfo sono, tra l’altro, indispensabili per l’economia del paese. La mancanza di carburante, elettricità e medicine è ormai una costante nella vita di milioni di persone. Nei prossimi mesi il paese tornerà alle urne e i libanesi saranno chiamati a votare per il rinnovo del parlamento. 

Con ogni evidenza, l’Arabia Saudita ha scelto di mandare un messaggio a Hezbollah e ai cittadini libanesi. Usando in modo pretestuoso le dichiarazioni del ministro, Ryad cerca di isolare il partito di Dio facendo leva sulle disperate condizioni in cui si trovano i libanesi e sperando di incrinare ulteriormente il rapporto tra il principale partito sciita e i cittadini del paese levantino.

Da diversi anni ormai molti vedono in Hezbollah l’origine di molti dei mali che affliggono il paese. Al momento, i gruppi della società civile che avevano alimentato le proteste di due anni fa non sembrano avere la forza per tornare a occupare le piazze. Gli eventi degli ultimi anni, esplosione del porto in primis, hanno però messo in seria discussione la presa di Hezbollah su porzioni della popolazione che in passato sostenevano l’asse sciita. 

La forza del Partito di Dio non si basa necessariamente sul consenso elettorale, ma la strategia delle potenze regionali rischia di alimentare ulteriormente la polarizzazione e il clima di tensione nella repubblica libanese. D’altra parte, la decisione saudita è anche un chiaro segnale per Teheran. L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca sembrava aver ridotto la tensione tra i due paesi. Il recente riavvicinamento tra le monarchie del Golfo e la Turchia, unito alla retorica ostentata da quest’ultima nei confronti di Teheran e alla postura che la Repubblica Islamica ha assunto sul tema del nucleare, rischia di rimettere in discussione le basi per un effettivo dialogo.

Negli scorsi mesi si era parlato anche di un possibile riallineamento tra Arabia Saudita e la Siria di Assad, con Ryad che si sarebbe offerta di ricoprire un ruolo di primo piano nella ricostruzione del paese. I recenti sviluppi, tuttavia, sollevano più di una perplessità sull’effettivo realismo di uno scenario del genere. L’eventuale riavvicinamento tra Abu Dhabi e Damasco, iniziato nel 2018 con la riapertura dell’ambasciata degli Emirati in Siria, potrebbe essere visto come un tentativo di limitare l’influenza regionale di Teheran.

Mentre, dunque, continuano i giochi di potere e i calcoli basati sull’equilibrio di potenza, resta come unica certezza la deriva verso il disastro umanitario che milioni di persone nella regione vivono sulla propria pelle da ormai troppo tempo. In un contesto del genere  la polarizzazione e l’esasperazione dello scontro possano emergono inevitabilmente con maggiore enfasi. Con il rischio concreto che in un futuro non troppo lontano gli incidenti diplomatici possano trasformarsi in qualcosa di ben più grave. 

Classe 1989. Ho studiato scienze politiche e cooperazione internazionale. Appassionato di montagna e di sport, seguo e studio la realtà mediorientale

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