Un tuffo nei mari caldi

C’è un’ossessione, un’ambizione, un interesse vitale che dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti non cessa di affievolirsi nei pensieri degli strateghi russi: la ricerca dei mari caldi. Brosok na Jug, “balzo verso sud” è il termine coniato dagli ultra-nazionalisti che nell’ottocento prevedevano l’avvento di un’epoca in cui i russi avrebbero “lavato i loro stivali con le acque del Mediterraneo”.

Questa propensione espansiva è da secoli insita nel Dna russo, ma recentemente è prepotentemente tornata alla ribalta grazie alle direttive d’intervento della politica estera del Cremlino in Crimea, Siria e Libia. «La stratega russa di “difesa aggressiva” non è certo un’invenzione di Putin, ma in questi anni si sta espletando in maniera più energica» afferma Antonella Scott, vice responsabile della sezione Esteri e inviata in Russia del Sole 24 Ore.

Adolphe Yvon – Combat dans la gorge de Malakoff – Lo scontro dell’8 settembre 1855 nell’ambito della Guerra di Crimea – Wikimedia

L’accesso agli stretti che si affacciano su mari meno ghiacciati di quello del Baltico e di Siberia era al centro delle mire russe già ai tempi dell’autocrazia zarista. Una grossa fetta delle tensioni coloniali ottocentesche è stata occupata dal “Grande Gioco” (che i russi chiamano Torneo delle ombre, Turniry Teney), la contesa tra Londra e Mosca per gli accessi all’Oceano Indiano. In questa sfida diplomatica e militare il paese dell’Orso giunse fino ai confini dell’Afghanistan, arrivando ad insidiare le vie di comunicazione che rifornivano la “perla dell’impero britannico”, l’India su cui in tutti i modi i Tre Leoni inglesi cercarono di allentare la pressione. Per qualche tempo dopo la guerra in Crimea, la situazione in Asia minore godette di un periodo di stallo, ma lo scacchiere Mediterraneo era destinato a riaccendersi.

I russi hanno combattuto le guerre più sanguinose del Settecento e dell’Ottocento proprio per marciare verso le “acque tiepide”. Con la Turchia, la sua più diretta rivale a Sud, la Russia ha combattuto undici guerre tra il 1568 e il 1878. Nella “Questione orientale” sul destino finale dell’Impero ottomano si intrecciano anche le vicende del nostro Risorgimento, con l’intervento di un contingente piemontese nella guerra in Crimea del 1853-56. In quell’occasione, il “concerto delle grandi potenze” guidato da Francia e Gran Bretagna – presso cui Vittorio Emanuele II e Cavour speravano di ottenere “credito” internazionale -riuscirono a fermare le aspirazioni russe sui possedimenti ottomani dei Principati danubiani e di Crimea, imponendo loro una pace piuttosto umiliante.

Durante il primo conflitto mondiale un valido alleato dei russi era rappresentato dalla Serbia, “sorella minore” protetta dallo zar. Belgrado permetteva a Mosca di avere un appoggio sul Mediterraneo. Il benefico accesso ai mari caldi non durò però a lungo. La Rivoluzione d’ottobre ridimensionò l’espansionismo russo, che preferì concentrarsi negli anni della rivoluzione “in un solo paese” sul fronte interno, o immediatamente limitrofo ai suoi sterminati confini. La vittoria nella “Grande guerra patriottica” contro i nazisti non riuscì a garantire all’Unione sovietica il recupero di quell’accesso sul Mediterraneo. “L’eresia” del maresciallo Tito con la rottura della Jugoslavia nel 1948, tolse al nascituro Patto di Varsavia lo sbocco sul Mare Adriatico.

La flotta sovietica del Mediterraneo, dal mare del Bosforo si appoggiava ai porti dei paesi amici dell’epoca come la Libia, l’Egitto e la Siria dove poteva anche contare sulla piccola base navale di Tartus, comunque non in grado di ospitare unità maggiori.

Truppe sovietiche di ritorno dall’Afghanistan, 1989 – V. Kiselev/Sputnik

La “cortina di ferro” via terra e la Sesta Flotta statunitense di base a Napoli erano un deterrente invalicabile ad occidente per l’Impero sovietico. Che così tornò alla carica ad est, ripercorrendo le vie di comunicazione contese un secolo prima dal “Grande gioco”. Nel 1979 Mosca tornò nuovamente alla carica in Medio oriente con l’invasione dell’Afghanistan, i sentimenti ottocenteschi non si erano ancora assopiti e continuavano a persistere nell’animo russo. La permanenza nel Paese dei mujaheddin durò dieci anni, risolvendosi nel 1989 con una nuova umiliazione in termini di obiettivi, di politica e soprattutto di sacrifici di vite umane. L’Afghanistan ha preannunciato quello che sarebbe successo poco: la caduta dell’URSS.

Ancora una volta la Russia, nel frattempo divenuta Federazione all’interno della Comunità degli Stati Indipendenti, si riorganizzò mutando forma di governo, indirizzo economico, ideologia e simboli ma non perse ciò che l’aveva contraddistinta e l’avrebbe marchiata ancora per gli anni a seguire. Anche con l’oligarchia al potere, le propensioni di politica estera erano sempre le stesse: l’antica ossessione per il tuffo nei mari del sud tornò a galla. Poi il 31 dicembre 1999 è iniziata la ventennale, e ancora ben lungi dal concludersi, epoca di Vladimir Putin.

Limes

«L’intervento militare russo nella guerra civile siriana – prosegue Antonella Scott – avviene nel 2015, per rompere l’isolamento internazionale di Putin dopo lo scontro con l’Ucraina per la Crimea». Da quel momento la strategia in ambito internazionale del Cremlino, che deve far fronte alle sanzioni americane, si muovono in una duplice direttiva.

Da un lato, con l’aumento dell’interventismo diretto nella tutela dei propri interessi strategici, in una logica di “difesa attiva“. «Più che una scelta deliberata, dopo l’effetto domino innestato dalla crisi in Crimea, l’interventismo russo è una scelta obbligata: per cercare di rompere l’isolamento, salvando Assad, l’unico alleato rimasto; e per salvaguardare interessi economici e strategici vitali in Libia e in Siria». In Siria, la Russia cerca di tenere in vita il prezioso alleato, combattendo il fondamentalismo islamico dell’Isis che rischia di riaccendere quello interno del Caucaso. Bisogna poi difendere “l’arma energetica” dei gasdotti che passano per il Mediterraneo.

Parallelamente all’uso della forza, Putin ha cercato di portare avanti una «strategia di interlocuzione con tutti». Il presidente russo tiene aperta la porta del dialogo con tutti gli attori che si interfacciano al Medio oriente: dagli Stati Uniti all’Iran, da Erdogan all’Unione Europea». L’incontro di giovedì a Mosca tra Putin ed Erdogan dimostra quanto stia diventando difficile questo gioco. «Gli obbiettivi tra i due leader sono contrastanti, con Erdogan che vuole creare una “zona cuscinetto” per fiaccare i curdi, mentre Assad e i russi cercano di “completare la riunificazione del territorio siriano. Russia e Turchia sono su fronti opposti anche in Libia. Le cose anche per Putin rischiano di peggiorare, con le nubi che iniziano a scorgersi dietro la sua politica dei “forni aperti” col dialogo con tutti gli interlocutori possibili».

Un incrociatore russo nella base di Tartus, in Siria – Getty Images

La proiezione russa sul piano internazionale ha pagato fino a un certo punto. In termini interni, ai russi sembra interessare sempre più la sicurezza economica, che iniziano ad anteporre al desiderio di rilancio internazionale come grande potenza. Una dimostrazione potrebbe essere il referendum Costituzionale del 22 aprile, per cui non è affatto certa una vittoria di Putin. Il presidente sta puntando in maniera ossessiva sulla proiezione estera del paese, calcando l’onda delle celebrazioni del 75esimo anniversario della Giornata della vittoria della II Guerra Mondiale il 9 maggio.

Sino ad ora Putin è stato un eccellente giocatore di una partita su più tavoli, che sta permettendo di mantenere la base navale di Tartus e il fedele Assad, nella sfera d’influenza del Cremlino; l’Ucraina lontana da Sebastopoli; e i tracciati dei gasdotti al sicuro.
«Ma la strategia di tenere alta la tensione, con la Turchia in Siria, con la Nato in Crimea e con l’Europa in Libia, si rivela ogni giorno più costosa e quindi controproducente. In Siria , la Russia rischia di rimanere intrappolata in quella che doveva essere una guerra lampo».

Il Mediterraneo è tornato al centro della sicurezza globale, è Mosca non ha mai smesso di cercare di farne parte. Si sta giocando una partita a scacchi – uno sport nazionale per i russi – vede molti attori anche esterni all’area. Il lassismo europeo rischia di concludersi con uno scacco matto della Russia che, allo stesso tempo, deve stare attenta a non annegare dopo aver fatto l’agognato tuffo nel mare del sud.

Classe 92', fondatore e direttore di The Pitch. Stefano vanta una laurea in Storia, una in Relazioni Internazionali, oltre a innumerevoli esperienze lavorative sottopagate. Sogna di commentare un’elezione presidenziale negli USA e il Fano in Serie B: ambedue da direttore di The Pitch.

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