Una nuova Democrazia Cristiana?

Il M5s una nuova DC? Il paragone può istintivamente suonare offensivo ai sostenitori dell’una e dell’altra formazione politica. Come dare torto alle repulsioni di un democristiano che si vede accostato agli epigoni dell’Uomo Qualunque, e di un grillino a quelli di Mani Pulite?

Occorre uno sforzo, apparentemente titanico, per sgombrare il campo dagli slogan e dall’ideologia. In soccorso di quest’impresa (o timore, stando ai diretti interessati) accorre tuttavia la Seconda – o Terza, evitiamo di aprire un’altra disputa teologica – Repubblica (almeno sulla questione ideologica, per gli slogan non sembra esserci molto da fare).

E’ il post-ideologico, baby. O l’ironia della storia, così potrebbe leggersi il superamento dell’ideologia del movimento che tra i suoi riferimenti culturali ha il filosofo (Rousseau) e l’evento (gli Stati Generali) che più richiamano all’evento storico, la rivoluzione francese, che della politica e dell’ideologia moderna rappresenta l’origine.

Guardando la parabola pentastellata, sembra però riscontrabile una costante storica: quella della partitizzazione del movimento. E’ iniziata in Francia coi sanculotti che si sono fatti giacobini, montagnardi e girondini; è accaduto in Russia con la scintilla rivoluzionaria che è divampata per poi spegnersi nei vari Partiti comunisti del mondo; qualcosa di simile è accaduta anche da noi, con un movimento che si è fatto partito mentre marciava su un potere che avrebbe detenuto per un ventennio.

Paragoni che non fanno al caso nostro, visto che abbiamo già deciso l’etichetta da appioppare al nostro fantomatico Movimento. I nuovi cinque stelle hanno aspetti comuni con l’ultima Democrazia Cristiana. Quella compresa tra il Pentapartito e Mani Pulite, il partito dalle basi (De Mita, Andreotti, Fanfani e Forlani) tra loro contemporaneamente rivali e affratellate, perennemente insidiato dalle opposizioni ma sempre al governo.

Così non sembra possibile ridurre a unità le varie anime della creatura di Casaleggio e Grillo. Anche il trasversalismo (immortalato dal “Siamo ecumenici” di Beppe Grillo nel 2013, riguardo una possibile apertura a CasaPound) si stringe intorno alla bandiera dell’antagonismo, le fratture unificanti: la Dc era anti-comunista, i pentastellati sono contro la vecchia casta politica. Rispetto allo scudo crociato manca la comune matrice cattolica, in un Movimento che come collante trova un sempre meno l’appello alla democrazia diretta, sempre più l’ambientalismo e sempre un euro-scetticismo a targhe alterne.

Al di là del programma e dei programmi ideologici, rimane la parabola politica di un Movimento: nato nel 2005 sul social network Meetup con gli “Amici di Beppe Grillo”, svoltato con gli eventi del V-Day nel 2007, costituito nel 2009, entrato in politica nel 2010 e al governo nel 2018. Per non abbandonarlo più.

La capacità di conservazione del potere – qualcuno oggi potrebbe contribuire all’abuso del termine “resilienza” – al di là delle correnti di partito e degli alleati di governo, questo sembra al momento il principale comun denominatore tra i quarantacinque anni di Dc al governo e quattro, forse cinque del M5s in questa XVIII legislatura.

Si può segnalare nel Movimento una graduale plasticità nella gestione delle due tematiche di riferimento dell’azione di un partito, l’economia e la visione della politica estera. Nel campo economico, alla spinta barricadera delle origini è subentrata la divisione tra una sfumatura progressista in campo ambientale e fiscale e una spinta sociale culminata nell’introduzione del reddito di cittadinanza e nelle battaglie per il salario minimo ai tempi del Governo Conte I. Più sfumate invece le visioni in materia di intervento pubblico dello Stato nell’economia, con una forte componente interna apertamente favorevole che non è mai riuscita a creare una visione di sistema.

Sul fronte esteri, Conte dovrà gestire un dualismo che risale all’origine del Movimento. E che è stato a suo modo incarnato e non sciolto dal primo premier mai indicato dal Movimento. Il capo di governo che parlava di “populismo” e “sovranismo” sanciti dalla Costituzione si è trasformato nel “punto di riferimento” dei progressisti (parola di Nicola Zingaretti). Critico dell’austerità e dei dettami rigoristi nel suo primo governo, Conte ha inaugurato l’esperienza giallorossa da garante dell’europeismo ortodosso. Questo dualismo si è posto anche in relazione al rapporto tenuto da Roma durante il suo governo nei confronti della grande questione geopolitica della nostra era: la sfida tra Cina e Stati Uniti. Su cui da tempo i Cinque Stelle si dividono, vedendo tuttavia gradualmente sfarinarsi, dopo la fine della contestazione anti-europeista, anche le posizioni di chi, come l’ex barricadero Alessandro Di Battista, perorava una visione “non allineata” per il Paese, guardava come riferimento Paesi non occidentali (come il Venezuela), immaginava l’uscita dalla Nato.

Conte è stato a lungo in bilico tra i giganti: è il leader politico che ha siglato il memorandum di adesione dell’Italia alla Nuova via della seta, fortemente criticata da Washington, ma anche l’uomo ritenuto a lungo più vicino a Donald Trump nelle prime fasi del suo governo. La sua postura è oscillata molto spesso, complice l’inesperienza sostanziale sulla gestione delle grandi dinamiche globali, tra picchi di ingenuità su un fronte e rigorosi richiami all’ordine e alla fedeltà alla scelta di campo atlantica prontamente accolti sul secondo. Postura contraddittoria che ha reso Conte ininfluente a Pechino e via via inviso a diversi apparati strategici a Washington e che non mancherà di giocare un ruolo fondamentale quando “Giuseppi” prenderà definitivamente la guida del Movimento Cinque Stelle, inaugurando la carriera da leader partitico.

Il Movimento è oggigiorno dominato da due correnti. Da un lato, il graduale adeguamento di Luigi Di Maio ai canoni tradizionali dell’atlantismo, accentuato nel corso del suo mandato da ministro degli Esteri, in cui l’ex leader M5S è parso più intento a prese di posizione plateali che ad azioni sostanziali. Dall’altro, l’importante peso esercitato sul Movimento dal fondatore Beppe Grillo, che settimana dopo settimana non manca di parlare di aperture alla Cina e nell’estate scorsa ha proposto a Conte, allora premier, un piano sul digitale fortmente autarchico che pareva fatto apposta per tagliare fuori i colossi tecnologici statunitensi. La fuoriuscita di diversi esponenti dell’ala ortodossa del grillismo, la permanenza nel Movimento di una quota di onorevoli attenti alle logiche istituzionali romane e il sostanziale adeguamento di buona parte di essi hanno spostato certamente in direzione della prima linea l’anima pentastellata, ma Conte si trova nella difficile posizione di far coesistere pulsioni differenti senza apparire, all’estero, il garante ideale. E questo compromesso permanente che sembra essere diventata la linea guida nel nuovo M5S si inserisce a suo modo nella storia del movimento di protesta divenuto forza di governo.

Il Movimento con la svolta centrista (un po’ centro-dx, un po’ centro-sx) di Conte, rimane un partito interclassista, con un programma misto è ormai a tutti gli effetti un partito. Ma non potrà mai essere un partito qualsiasi: è un contro-partito, un protagonista della contro-democrazia, è la Contro-Democrazia Cristiana dei nostri tempi.

Un leader, un partito” è il dossier di The Pitch e Osservatorio Globalizzazione che fa la radiografia dei principali partiti politici italiani.

Nelle precedenti puntate:
1. Radiografia di uno spettro politico – Introduzione
2. Dopo di noi il diluvio – Forza Italia
3. La solitudine del nome “Prima” – Lega

Classe 92', fondatore e direttore di The Pitch. Stefano vanta una laurea in Storia, una in Relazioni Internazionali, oltre a innumerevoli esperienze lavorative sottopagate. Sogna di commentare un’elezione presidenziale negli USA e il Fano in Serie B: ambedue da direttore di The Pitch.

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