Bridgerton: il passato attraverso lo sguardo presente

La serie TV Bridgerton, creata da Chris Van Dusen e prodotta da Shonda Rhimes, ha debuttato su Netflix a fine 2020. Si tratta di un period drama, cioè una serie in costume ambientata nell’Inghilterra dell’Era Regency. È stato un grande successo, come quasi tutte le produzioni di ShondaLand, che fa riflettere su cosa accade quando si racconta il passato con gli occhi del presente.

Per farne un’analisi sono necessari alcuni spoiler, ma Bridgerton è una storia nota ancora prima di iniziare la serie. Questo però non è il punto debole dello show: la fonte della narrazione, infatti, è un ciclo di romanzi rosa firmati Julia Quinn. E i testi di questo genere, per loro definizione, si concludono tutti nello stesso modo – il classico lieto fine con l’unione felice dei protagonisti –, il lato interessante è vedere come ci si arriva.

Una stagione (per ora) da otto episodi ripercorre le vicende della famiglia Bridgerton, londinese, altolocata e composta da una donna vedova e sette figli. Una di essi è Daphne (Phoebe Dynevor), una giovane che debutta in società e deve trovare il miglior marito possibile. La sua strada si incrocia con quella di Simon (Regé-Jean Page), il duca di Hastings, e tra i due scatta la scintilla. Si può già intuire come la relazione si sviluppa, ma sono il successo di questa serie TV e la risposta del pubblico a colpire l’attenzione.

Trailer ufficiale della serie TV Bridgerton

«Shonda Rhimes è una delle figure più importanti della serialità televisiva degli ultimi vent’anni, una donna afroamericana nata a Chicago cinquant’anni fa, poi trasferitasi in California, dove tuttora vive e lavora. Le sue serie hanno lasciato un segno importante nei generi in cui si sono inserite, hanno contribuito in maniera significativa a modellare l’immaginario collettivo avvicinando il grande pubblico a temi complessi e hanno fatto un gran lavoro riguardo alla rappresentazione delle minoranze» scrive il critico cinematografico Attilio Palmieri. «Più di ogni altra cosa, però, le serie di Rhimes hanno avuto un successo enorme, permettendo alla hyphenate statunitense di creare un vero e proprio impero: ShondaLand».

Già a un mese dall’uscita, infatti, Bridgerton si è assicurata il posto di show più visto su Netflix e gli ascolti hanno continuato a salire anche nelle settimane successive. La serie firmata Rhimes si è dimostrata ancora una volta dirompente per via dell’ampiezza del pubblico raggiunto, nonostante abbia mancato la candidatura ai Golden Globe. Un successo quasi prevedibile, vista la carriera della produttrice, che ha realizzato tra gli altri Grey’s Anatomy, Scandal e How to Get Away with Murder, e che ha travolto anche Bridgerton, una narrazione del passato attraverso gli occhi del presente. Per capire questa interpretazione ci si deve concentrare su un elemento: l’accusa di colorblindness rivolta alla serie.

Credits: Netflix

Colorblindness significa, come suggerisce la parola, essere ciechi al colore della pelle, all’etnia. È la critica rivolta allo show dopo la sua messa in onda, in quanto circa la metà del cast è composto da persone non bianche, ma senza spendere parole su questa scelta a livello di trama. In italiano si parla anche di daltonismo razziale per definire la negazione delle differenze etniche, che sono invece presenti come pratica sociale.

In questo caso, quindi, si accusa la serie di non aver fatto una scelta davvero inclusiva selezionando un cast senza considerarne il colore della pelle. Il risultato sarebbe un falso storico, in quanto nell’Inghilterra Regency l’alta società non era di certo composta da persone afrodiscendenti. Il problema di fingere di non vedere il colore della pelle è che il mondo rappresentato «non è solo falso, dato che la pelle si vede e determina l’aspettativa e il tenore di vita di milioni di persone, ma è anche problematico perché cancella la storia, le esperienze e le responsabilità nei confronti delle minoranze a livello personale e istituzionale», come scrive the Submarine. Un cast per metà non bianco, quindi, non rispetta i rapporti etnici del tempo e non mostra il conflitto che era presente nell’Inghilterra dell’800.

Quali motivazioni, allora, hanno spinto in questa direzione il creatore e la produttrice della serie? Il punto di partenza è una discussa ricostruzione storica: le origini africane di Carlotta di Meclemburgo-Strelitz, l’allora regina consorte per aver sposato re Giorgio III d’Inghilterra. A partire da questa teoria, quindi, Bridgerton decide di ampliare la rappresentazione etnica nel suo cast per dare voce a una storia in parte dimenticata e, inoltre, permettere a un pubblico più ampio di immedesimarsi. Tutto ciò è in linea con la tendenza di Rhimes ad ampliare le identità presenti nei suoi show e a dare spazio ad attrici e attori non bianchi.

La regina Carlotta di Meclemburgo-Strelitz (Golda Rosheuvel) nella serie. Credits: Liam Daniel/Netflix

Non tutta la comunità nera, però, l’ha trovata una scelta inclusiva e capace di trasportare con forza all’interno della narrazione. Sono molte le dichiarazioni di persone non bianche che si sono sentite respinte dallo show. Questo sentimento è rimarcato anche dal fatto che, nel corso degli episodi, ai personaggi con la pelle più scura (darker-skinned) sono assegnati ruoli subordinati o negativi e a quelli con la pelle sempre nera ma più chiara (lighter-skinned) ruoli di maggior rilievo. Un caso quindi di colorismo, il pregiudizio basato sulla scurezza della pelle.

Il vero problema è che la nerezza dei personaggi non viene mai discussa e il razzismo non è problematizzato, se non in un breve dialogo tra Simon e Lady Danbury (Adjoa Andoh), che dice: «Eravamo due mondi separati, divisi dal colore, finché il re non si è innamorato di una di noi. L’amore, Vostra Grazia, conquista ogni cosa». Una giustificazione semplicistica dell’alterato spaccato sociale inscenato in Bridgerton.

S01E04 il dialogo tra Simon e Lady Danbury

Qual è la relazione tra la colorblindness della serie e il suo grande successo? Non di causa-effetto, naturalmente. Il grande pubblico di Bridgerton non è dovuto primariamente alle tematiche razziali, ma alla narrazione: la storia d’amore, l’ambientazione, il sesso. Bisogna però considerare che gli ascolti raggiunti fanno da cassa di risonanza e concentrano l’attenzione su com’è stata affrontata la questione identitaria, mettendo in evidenza un grande vuoto. Il daltonismo razziale ha colpito sia la scelta del cast che la narrazione, rischiando di diffondere all’interno di un pubblico vasto un appiattimento delle differenze etniche.

Bridgerton ha vari aspetti positivi e mostra, ancora una volta, gli incredibili traguardi che Rhimes può raggiungere. Forse però non era la storia più adatta per inserire i temi identitari. L’inclusività passa attraverso narrazioni differenti da quelle dominanti o, almeno, da punti di vista nuovi. Raccontare l’Inghilterra dell’800 e inserire il conflitto razziale è possibile senza sfociare nel falso storico. Rappresentare l’alta società britannica come multietnica – soprattutto quando nei romanzi da cui è tratta la serie i personaggi sono tutti bianchi – rischia invece di appiattire la complessità e le contraddizioni di un passato che lascia ancora dei segni sul presente.

Leggo, scrivo e ne parlo. Sono una giornalista, un'insegnante. Mi occupo di diritti e conduco il podcast Cristianə a chi?

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