Come si fa a parlare di Outer Wilds?

È impossibile parlare di Outer Wilds.

Questa non è solo la conclusione a cui sono arrivato dopo aver messo la parola “fine” al mio viaggio intergalattico, ma è il modo in cui gli sviluppatori che conosco mi hanno consigliato il gioco stesso. Se non vuoi rovinarti completamente l’esperienza, mi hanno detto praticamente infilandomi il gioco in mano, buttati senza guardare trailer, senza leggere recensioni e senza cercare informazioni di qualunque tipo. Ho seguito il loro consiglio, e devo dire che è uno dei migliori che abbia mai ricevuto.

Questo è il motivo per lo stile più personale del solito in questo articolo: fare un’analisi spassionata del gioco senza distruggere ogni motivo per giocarci è impossibile, come sottolinea l’eccellente Christopher Franklin nel suo How The Heck Do We Talk About Outer Wilds?; l’unica soluzione è parlare non del gioco in sé, ma dell’esperienza personale del giocarci. E per poterlo fare, è necessario un tono più personale.

Ma perché?

Il menu principale del gioco (disponibile anche in italiano) non parla di partita, ma di “spedizione”. Nessun elemento del gioco è scelto solo per fare effetto, neppure il piccolo e scuro planetoide accompagnato dal tema musicale del gioco su cui spicca solamente un fuoco da campo in mezzo agli alberi.

La questione va al di là del semplice dibattito legato al mondo degli spoiler, e se avete sentito nominare anche di sfuggita The Last of Us Part 2, sapete quanto siano oggetto di discussioni feroci nell’ambiente. Outer Wilds è un gioco insieme estremamente semplice e ridicolmente complesso, con una trama magnifica; o meglio, con una storia magnifica. La trama del gioco la si potrebbe riassumere in una sola frase, mentre sul resto dell’universo si potrebbero passare giorni. Gli eventi veri e propri durano solo una manciata di minuti, fatto il calcolo – ma dicendo questo ci stiamo avvicinando rischiosamente a un limite che non intendo superare.

Sarebbe più facile definire cosa Outer Wilds non è. Non è un gioco tradizionale: non c’è nessun tipo di combattimento, non ci sono “condizioni di vittoria”, non c’è un momento in cui si può dire di aver raggiunto un obiettivo. Non c’è un inventario: si parte con quello che si avrà per tutta la durata del gioco. Non esiste un nemico vero e proprio, tolta forse l’inevitabile destino che hanno tutti gli universi, incluso il nostro. Durante il gioco stesso non succede nulla; eppure è una delle esperienze più soddisfacenti che abbia mai avuto nella mia vita.

Outer Wilds non è un gioco definito da cosa si fa, ma da cosa si sa. E qui metto le mani avanti: se il discorso finora vi incuriosisce, procuratevelo subito – è disponibile su molte piattaforme a un prezzo decisamente abbordabile. Anche se quello che sto per dire è estremamente vago, il massimo del gioco lo si può ottenere solo senza sapere nulla prima di affrontarlo.

Misteriose strutture spaziali in orbita attorno a pianeti inospitali ma completamente esplorabili: il gioco è fatto di fantascienza tradizionale solo all’apparenza come tutti gli altri.

Da non confondere con Outer Worlds, sparatutto RPG sfortunatamente uscito in parallelo il cui nome ha causato un’estrema confusione nel pubblico, Outer Wilds è un gioco basato sulla conoscenza proveniente dall’esplorazione per il gusto di esplorare – in senso sia meta-tematico che letterale. La premessa è relativamente semplice: agendo come un misto tra Lunar Lander e Gone Home, il gioco ci sguinzaglia all’interno di un (mini) universo simulato nel ruolo del più recente pilota della “compagnia” Outer Wilds, con un solo obiettivo: il nulla.

Siamo liberi di girare l’universo. Non c’è un indicatore, non c’è un personaggio a darci missioni, siamo solo noi, la nostra nave e il vuoto cosmico. Perché per la Outer Wilds l’esplorazione è un obiettivo fine a sé stesso: la conoscenza è il significato ultimo del loro scopo, e la serendipità un credo quasi religioso. Quel pianeta che si erge all’orizzonte, quel crepaccio tra i ghiacci, quella strana struttura che orbita al largo di Giant’s Deep: se lo vedi ci puoi andare, e se ci puoi andare potrai imparare qualcosa, che sia il modo particolare in cui i pianeti interagiscono tra loro o cosa sia successo agli alieni che abitavano questo settore della galassia prima del nostro arrivo.

E con l’esplorazione arriva la conoscenza. E la conoscenza è tutto: Outer Wilds non è assolutamente un semplice “vai qui e leggi un file”, ma qualcosa di più. Ogni comunicazione, ogni reperto, ogni curiosità soddisfatta apre una nuova dimensione del gioco, rivelando interi universi nascosti e leggi sconosciute che regolano cose che hai avuto sotto gli occhi. Movimenti dei pianeti, strani macchinari, leggi della fisica sconosciute, l’obiettivo è quello che ti dai da solo e saper interpretare il mondo che ti circonda permette di scoprirne i segreti e le storie che contiene.

Cosa sono quei corpi gemelli? Cos’è quella macchia davanti al sole? Che cosa diamine è successo sul pianeta semidistrutto in alto a destra, a malapena visibile nel vuoto siderale?

E che storie – siamo di fronte alla fantascienza quella vera, fatta non di astronavi che esplodono ma di idee che creano interi nuovi modi di pensare. Ma qui ci dobbiamo fermare: l’obiettivo di Outer Wilds è la scoperta, non cosa si può scoprire. E privare un lettore del piacere della scoperta significherebbe negare gli ideali stessi che il gioco incarna.

Descriverlo più nei dettagli rovinerebbe completamente il motivo per cui giocarci. Ho volontariamente evitato di parlare di uno degli elementi più importanti del gioco, l’elemento che unisce tutte le sue parti come colla, perchè scoprirlo da soli è uno dei momenti più emozionanti del gioco – o sconcertanti, a seconda di quando ci rendiamo conto di cosa stia succedendo. È un gioco che richiede attenzione, però; è un gioco che non si può prendere alla leggera, e per questo non è per tutti. È un gioco per quel tipo di persone che passano il tempo a cercare parallelismi narrativi nei libri, o a esplorare le tematiche di un film. È un gioco che ricompensa l’impegno.

Anche solo sbarcare su un pianeta e osservare il cielo potrebbe portarci a scoprire qualcosa di nuovo.

C’è un concetto, nel mondo del game design, chiamato ricompensa estrinseca – l’idea di dare qualcosa di tangibile a un giocatore, che siano punti o oggetti speciali, per ricompensarli per una certa azione e fornire una sensazione positiva. Il suo opposto è la ricompensa intrinseca, un atto che dà soddisfazione grazie al suo stesso essere eseguito, come il fare attività sportiva. Outer Wilds è un gioco con una tesi che più esplicita non si può: la conoscenza è una ricompensa estrinseca, e l’unica cosa a cui può e deve portare è ulteriore conoscenza costruita su quello che si è appreso. C’è un che di poetico in questa idea, una visione artistica del processo scientifico tanto coraggiosa quanto coinvolgente. Chapeau.

Stefano Zocchi (1992), nato analogico e cresciuto digitale. Laureato in Lettere Moderne e sfociato accademicamente nell'editoria multimediale, scrive per lavoro e per passione di videogiochi e tecnologia, con un particolare interesse per il potenziale narrativo ed economico del settore. A tempo perso crea giochi indipendenti e musica

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