Albania e Italia. Vlora, zucchero e carbone

Graecia capta ferum victorem cepit
La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore
Orazio, Epistole

[Le immagini sono tratte dal fumetto “Vlora” di Federico Bressani, pubblicato su Stormi]

Non serve di certo scomodare G.B. Vico dal suo eterno sonno per sapere che la storia è fatta di corsi e ricorsi. A volte, si piega su stessa, si capovolge e si contorce per apparirci di fronte come non ce la saremo mai aspettata. Sembra ieri quando le televisioni italiane trasmettevano il frammento televisivo chiamato Striscia La Berisha, dove due presentatori albanesi (interpretati da Gene Gnocchi e Teo Solenghi, per l’occasione Gnocchishi e Solenghishi) presentavano, in uno studio di fortuna, di fronte ad un gommone di salvataggio e affiancati da due “Valone” la versione albanese del programma Striscia La Notizia. Ed è invece praticamente ieri, o quasi, che la piccola Albania, decide di inviare sul suolo italiano una troupe sanitaria per aiutare a fronteggiare l’emergenza Covid-19. Due immagini a distanza di venticinque anni che raffigurano come negli ultimi anni è cambiata questa relazione, che ha però radici più antiche.

Durazzo, Albania, 7 agosto 1991. C’è un mercantile ormeggiato nel porto, e fino a qui niente di strano. Ma in quel momento per quel paese, non si tratta di una semplice nave: quell’imbarcazione è l’occasione della vita. Sulla Vlora salpano le speranze di migliaia di “persone, persone disperate”.

Tirana, Albania, 29 marzo 2020. C’è un aereo pronto a decollare, e anche niente di nuovo. «Noi non abbandoniamo l’amico in difficoltà» afferma in un solenne discorso il premier albanese Edi Rama prima di salutare 30 medici pronti a partire per fornire assistenza al nostro paese messo in ginocchio dal Coronavirus. «Laggiù è casa nostra».

Il discorso di Rama – Corriere.it

Siamo poveri ma non privi di memoria

Si è giustificato così il Premier albanese nel discorso in cui celebrava l’invio dei combattenti in camicie bianco sul fronte italico. Al di là del gergo militare, della retorica abbondante e di qualsiasi altra considerazione politica, resta una domanda: di che memoria parla e qual è il legame che porta i due paesi a definirsi amici?

Forse per rispondere bisogna partire proprio da quelle due Valone, chiamate così per il chiaro riferimento alle molto più avvenenti veline e per richiamare il nome della città albanese più famosa degli anni ’90: Valona in italiano, Vlore in albanese. Vlore proprio come quella nave cubana che trasportò migliaia profughi da una parte all’altra dell’Adriatico partendo da Durazzo, facendo rinascere la relazione tra i due paesi dopo la clausura dell’Albania durante il comunismo. Quella nave si chiamava Vlore, proprio come la città in cui il 26 dicembre 1914 gli italiani sbarcarono in Albania per intervenire militarmente nel paese, macchiandosi, ironicamente, per primi del reato di clandestinità. Quella però non fu un’avventura fortunata. La reazione albanese e le pressioni delle grandi potenze ci costrinsero nel 1920 a rinunciare a qualsiasi pretesa sui nostri dirimpettai. «Poche migliaia di insorti albanesi hanno buttato in mare una cosiddetta grande Potenza come l’Italia», scrive il 5 agosto nell’editoriale intitolato “Addio Valona” un giovane e accorato giornalista, Benito Mussolini. “L’onta di Valona” verrà cancellata il 7 aprile 1939, quando 30mila soldati italiani tornano a mettere piede nel porto da cui erano stati cacciati 20 anni prima, lo stesso da cui salperanno i protagonisti della nostra storia più di mezzo secolo dopo. Nonostante l’occupazione, gli italiani hanno lasciato un discreto ricordo in Albania. Tra il 1939 al 1943 l’Italia diede vita alla “Grande Albania”, estendone i confini su base etnica e arrivando a includere le aree popolate da albanesi in Grecia, Montenegro e Serbia.

Un breve entusiasmo, a cui farà seguito il disastro sul fronte balcanico: l’Italia anziché “spezzare le reni” alla Grecia, subirà il contrattacco e l’occupazione del sud dell’Albania (i due paesi non hanno mai firmato un trattato di pace e da 80 anni vige ancora formalmente una legge di guerra tra Grecia e Albania). Comincia allora la resistenza del Fronte di Liberazione contro gli italiani, cui fa seguito l’occupazione tedesca del Paese dopo l’armistizio firmato dall’Italia l’8 settembre 1943. L’inizio di un incubo comune per gli albanesi e per i 118mila soldati italiani nel paese che verranno imprigionati, uccisi o spediti nei campi di concentramento. Molti italiani si rifugeranno in montagna, prestando lavoro ai contadini albanesi in cambio di riparo o entrando nella resistenza: nasce il battaglione italiano “Antonio Gramsci”, in onore del segretario comunista originario di Gramsh, un paesino vicino a Elbasan, una cittadina di montagna dell’Albania centrale. Il 28 novembre 1944 i tedeschi lasciano l’Albania. «Gli albanesi vollero il primo battaglione a sfilare per le strade di Tirana liberata fosse proprio il Gramsci», racconterà a molti anni di distanza un militare italiano in servizio nel paese tra il 1942 e il 1943, Carlo Azeglio Ciampi.

Albania, il paese di fronte – Documentario del 2008 di Roland Sejko

L’Albania liberata passa in un attimo dal nazismo alla dittatura comunista. Il Fronte di Liberazione si proclama governo provvisorio e presidente diviene il semi-sconosciuto Enver Hoxha. Per 40 anni la parabola dell’Albania seguirà quella del compagno Hoxha che proverà a forgiare il paese a sua immagine e somiglianza. “Collettivizzazione” ed “egualitarismo” sono le parole chiave dell’ideologia allucinante in cui vive un paese “col piccone in una mano e il fucile nell’altra”. La realtà è che il Partito del Lavoro – nome consigliato ad Hoxha da Stalin in persona – dà il via a epurazioni, repressioni e persecuzioni religiose. Hoxha morirà l’11 aprile 1985, dopo aver fatto registrare il record di uomo di potere più longevo nell’Europa del Novecento, nonché uno dei peggiori despoti dell’Est.

Gli albanesi vissero nel terrore della Sigurimi, la polizia segreta, in un paese sempre più isolato. Il fronte comunista nel mondo e nei Balcani fu tutt’altro che unito, ma l’Albania si allontanò via via da ogni protettore: la Jugoslavia di Tito, l’Urss di Stalin e perfino la Cina di Mao. Alle condanne del capitalismo occidentale non fece seguito l’appoggio del mondo comunista che bollò l’ideologia che Hoxha professava “autenticamente marxista” come “isteria antisocialista”.

Per quarant’anni il paese è stato chiuso al resto del mondo, i confini sigillati nell’ossessione di un’improbabile invasione. In assenza di un nemico esterno, lo si cercò internamente. Leggi severe e repressione, bunker anti-atomici e campi di lavoro ovunque: l’Albania divenne una nazione-prigione. Durante la dittatura 5.577 uomini e 450 donne furono condannati a morte. In mancanza di prove, i sospettati venivano falsamente accusati e rinchiusi nei campi di lavoro: 26.700 uomini e oltre 7 mila donne sono stati “rieducati” in posti sperduti come Tepelene e Korce ma anche Elbasan e proprio Valona. 

Arriviamo così al tempo della nostra storia, per provare a capire da cosa scappavano le nostre migliaia di protagonisti. Teoricamente nessuno poteva lasciare il paese: la “fuga” era un crimine punibile fino a 20 anni di reclusione e le guardie di confine erano autorizzate a sparare a vista. Tra il 1945 e il 1990 quasi mille persone vennero uccise nel tentativo di varcare il confine. Un paese blindato, inaccessibile anche all’albanese più famosa al mondo, Madre Teresa di Calcutta, che non poté nemmeno recarsi al capezzale della madre morente. Le fughe riuscite fino al 1991 furono poche, ma gli albanesi continuavano a sognare di andarsene dall’Albania. Per andare dove?

Non sono solo la storia e la geografia a legare il Paese all’Italia. Se da noi in pochi si rendevano conto dei proclami di Radio Tirana, ben presto migliaia di albanesi si accorsero del grande prodigio che un piccolo giro di frequenze poteva innescare: la radio poteva captare i segnali italiani e, girando l’antenna in un determinato modo, si prendevano le emittenti televisive italiane. Per anni Rai e poi Mediaset hanno fatto sognare gli albanesi, che hanno imparato la nostra lingua con Sanremo, Domenica In, i quiz di Mike Bongiorno e i sabato sera con Celentano. Girare l’antenna verso l’Italia era un rischio che poteva costare il carcere ma che fruttava un’evasione dalla prigionia della realtà albanese. Una realtà che stava lentamente svanendo.

Sei anni dopo la morte del compagno Hoxha, inizia ad accelerare anche l’agonia del suo regime che però non crolla, anzi. Se la statua del dittatore viene trascinata al suolo di piazza Scanderberg in pochi minuti dai manifestanti che protestano a Tirana il 20 febbraio 1991, il partito non demorde e i suoi apparati rimangono, in coabitazione con i nuovi o cambiando nome. Intanto il paese langue, all’ultimo posto in Europa per quasi tutti gli indicatori economici, con un Pil pro capite pari a quello dell’Angola. Il sogno di partire diventa ora una possibilità, rischiosa ma percorribile.

Il paese di fronte, che hanno visto in televisione e che nei giorni di cielo terso si vede a occhio nudo, adesso è raggiungibile. Alcuni giovani albanesi ci avevano già provato a marzo, a bordo di centinaia di piccole imbarcazioni. Erano sbarcati a Brindisi il 7 marzo 1991, il giorno in cui l’Italia aveva scoperto di essere una terra promessa. E arriviamo a quel 7 agosto 1991. A Durazzo c’è la Vlora, la “nave dolce” che trasporta tonnellate di zucchero da Cuba insieme a 18 mila esseri umani. Dal bianco dello zucchero si passa al nero del carbone sul molo del porto di Bari, dove i nostri protagonisti rimangono abbandonati per giorni, prima di venire stipati in uno stadio e poi in gran parte rimpatriati, al termine del loro viaggio. Una vicenda agrodolce. Una storia da disegnare e da ricordare.

Un viaggio che si concluderà con il rimpatrio per loro, ma che non interrompe la storia tra le due nazioni. Oggi in Italia, vivono oltre 600’000 albanesi, alcuni, probabilmente discendenti di quelli che dopo quel primo rimpatrio, tornarono e a distanza di anni e di difficoltà sono riusciti a chiamare l’Italia casa. Quelle poche frasi, quel chiamarsi amici tra nazioni che hanno un trascorso di questo tipo rispecchia oggi il sentimento di molti, di una situazione diversa.

È vero che nei corsi e ricorsi della storia, non siamo arrivati di certo ad capovolgimento, a quella situazione magistralmente descritta da Orazio, quando parla dell’Ellenizzazione di Roma, in cui dichiara che la Grecia sconfitta ha conquistato i suoi feroci conquistatori con la cultura «Graecia capta ferum victorem cepit» però possiamo dire, che rispetto ai tempi Striscia la Berisha, l’Albania un pezzettino d’Italia lo ha conquistato.

Classe 92', fondatore e direttore di The Pitch. Stefano vanta una laurea in Storia, una in Relazioni Internazionali, oltre a innumerevoli esperienze lavorative sottopagate. Sogna di commentare un’elezione presidenziale negli USA e il Fano in Serie B: ambedue da direttore di The Pitch.

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