L’ATTENTATO A TOGLIATTI. UNA PROVA DI RIVOLUZIONE? INTERVISTA AL PROF. GIUSEPPE PARDINI
PREMESSA
I giorni immediatamente successivi all’attentato a Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito Comunista Italiano misero in crisi la tenuta del neocostituito stato democratico italiano.
Le proteste dei partiti del Fronte Popolare, usciti sconfitti dalle elezioni politiche, e la proclamazione dello sciopero generale a tempo indeterminato da parte della CGIL, sembravano il preludio della conquista violenta del potere da parte del PCI.
Il Governo De Gasperi riuscì a contenere l’urto, e in 48 ore i focolai di rivolta sembrarono attenuati.
L’ACCADUTO
Il 14 luglio 1948 un giovane studente siciliano di estrema destra, Antonio Pallante, sparò quattro colpi di pistola al capo del Partito Comunista che stava uscendo dalla Camera dei Deputati.
La notizia dell’attentato si propagò in Italia e all’estero, generando l’immediata protesta della base del PCI. Immediatamente la CGIL proclamò lo sciopero generale. Il governo che si riunì nel giro di poche ora attuò una risposta durissima alle manifestazioni.
L’INTERVISTA
The Pitchplatform ha incontrato il Professor Giuseppe Pardini. Docente presso l’Università degli Studi del Molise dove insegna, tra l’altro, Storia Contemporanea e Storia dei movimenti e dei partiti politici. Il Professor Pardini è stato vincitore della 52 edizione del Premio Acqui Storia, sezione scientifica, con il volume Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1944 (Luni, Milano, 2018).
Gli studi compiuti sulle carte dell’Ufficio Informazioni “I” dello Stato Maggiore Esercito, conservate presso l’Archivio dell’ufficio Storico dello SME di cui il professore è collaboratore esterno, hanno colmato una serie di interrogativi che la ricerca aveva solo ipotizzato. Gli indizi dell’ esistenza dell’apparato paramilitare clandestino comunista e degli ipotetici piani insurrezionali per la conquista del potere (il cosiddetto Piano K) riportati nelle informative dell’intelligence italiana hanno fatto compiere passi in avanti alla ricerca mettendo in discussione consolidate interpretazioni.
Professore, il giovane attentatore, Antonio Pallante, aveva alle spalle una struttura organizzata o agì da lupo solitario?
No, Pallante agì da solo, di spontanea iniziativa e in maniera persino un po’ improvvisata. Tuttavia andò davvero vicino al suo obbiettivo. Tanto che il segretario del Pci riuscì a salvarsi, non soltanto per il tempestivo intervento dei soccorsi, ma proprio perché Pallante sparò con proiettili di stagno. Questi erano normalmente usati in funzione antisommossa dalla polizia militare, e acquistati, con un vecchio revolver, al mercato nero a Catania.
In quei giorni critici si parlò anche di messa al bando del Partito comunista, cosa avrebbe comportato questa decisione politica?
Da tempo alcuni settori politici premevano sul governo per una legge molto restrittiva che potesse portare addirittura alla messa fuori legge del PCI. Ciò, in virtù di una presunta scarsa affidabilità democratica che il Partito comunista italiano sembrava dimostrare a causa della sua dipendenza dalle organizzazioni internazionali sovietiche.
E non a caso un ampio fascicolo del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri era già stato aperto per verificare tale eventualità. In esso si erano man mano raccolte molte indicazioni per quella difficile operazione politica. Se non si arrivò a quel punto molto si dovette al probabile accordo intercorso tra De Gasperi e Togliatti. I due leader, politici saggi e capaci, avevano compreso molto bene la realtà italiana e internazionale.
Certo è che ancora oggi, dopo quasi 80 anni dagli avvenimenti, molti fascicoli rilevanti e fondamentali, conservati nel Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, continuano a essere esclusi dalla consultazione. Purtroppo, il loro studio viene pervicacemente negato agli storici.
Rimango piuttosto convinto che le vicende italiane possano essere ricostruite con precisione soltanto facendo ricorso alla documentazione interna. Poiché anche i servizi esteri stranieri, anglo-americani in primis, utilizzavano materiale proveniente dai servizi italiani.
Il suo lavoro si basa prevalentemente su fonti inedite dei servizi di informazioni italiani, militari e del ministero dell’Interno. In che modo lo Stato si era organizzato in risposta all’eventuale insurrezione?
Dopo le elezioni dell’aprile 1948 ormai le forze dell’ordine e le forze armate avevano ripreso condizioni di normale efficienza. Esse non avrebbero avuto particolari problemi a contenere eventuali fenomeni eversivi. Prova ne furono le fiammate rivoluzionarie di 24-36 ore che si verificarono in occasione del grave attentato a Palmiro Togliatti.
Addirittura, nel caso in questione, forse l’unico momento in cui si manifestarono sul campo ipotesi rivoluzionarie, non venne neppure fatto ricorso alle forze armate. Infatti, non solo polizia e carabinieri mantennero il controllo della situazione, ma eccessi eversivi di qualche rilievo si verificarono soltanto in una dozzina di città del centro nord. Pochi, per mettere in discussione la stabilità di un Paese.
Comunque sia nella seconda metà del 1948 il tempo per una eventuale conquista rivoluzionaria del potere da parte del PCI e delle sue organizzazioni era già scaduto. Secondo il vertice dell’intelligence italiano tali possibilità erano molto elevate nella seconda metà del 1945 e per buona parte del 1946. Ma con la successiva stabilizzazione e la ratifica del trattato di pace, una eventuale prova di forza comunista si sarebbe risolta in un fallimento e in un nuovo bagno di sangue.
E non a caso c’erano anche ambienti che auspicavano tale mossa da parte del PCI, così da poterla finire una buona volta con il comunismo in Italia.
Probabilmente il vertice responsabile del PCI frenò le intemperanze dei settori oltranzisti ed ex partigiani del partito (che c’erano, erano organizzati e mordevano il freno), e questo permise di contenere la reazione del governo, evitò la radicalizzazione delle posizioni e, infine, lo scontro aperto. Che non sarebbe certo andato a vantaggio del Pci, come i “rivoluzionari”, in maniera miope, invece ipotizzavano.
Secondo le informative dei servizi italiani, esisteva un’organizzazione paramilitare comunista, eventualmente in buoni rapporti con Mosca. QUESTA avrebbe dovuto attuare il famoso piano “K” e prendere così il potere in Italia? nel 1948 c’era davvero il rischio di una presa del potere violento da parte del PCI?
Si, tale organizzazione si chiamava Apparato paramilitare comunista, definito brevemente Apparato, e poteva contare su circa 80.000 uomini e un notevole armamento.
Tuttavia la struttura dell’Apparato era piuttosto disomogenea. Essa aveva una efficiente organizzazione in Liguria, in Emilia e in parte di Piemonte e Lombardia, ma non era in grado di controllare più ampie e contigue zone del Paese.
Il Piano K, per di più, poteva scattare soltanto a determinate condizioni. Nel caso si fosse modificata la situazione internazionale e in seguito alla degenerazione della guerra fredda in un vero e proprio conflitto in Europa.
Non a caso il Piano K si sarebbe rapidamente trasformato, dopo il 1951, in un piano difensivo e da mettere in campo, semmai, in caso di involuzione della situazione politica italiana e a difesa delle istituzioni democratiche e del partito stesso. Ma al PCI, comunque, faceva sempre comodo che gli avversari pensassero che esso aveva a disposizione un consistente apparato paramilitare clandestino in grado di attivare rapidamente il piano per la conquista del potere con la forza. La “minaccia” di quella presenza era un ottimo deterrente per una “eccessiva” politica anticomunista…
PER APPROFONDIRE
GIUSEPPE PARDINI, Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1944 (Luni, Milano, 2018). VINCITORE DEL PREMIO ACQUI STORIA 2019 PER LA SEZIONE STORICO SCIENTIFICA.
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