la voglia Asia

La voglia

“Perché questi piani di realtà sovrapposti, intersecati, dentro gli schermi?”, si chiese Asia, stanchissima, una mattina d’ottobre. “Schede che si aprono, schede che si chiudono… La vista si confonde, il cervello si ottunde, non mi piace guardare dentro allo smartphone, ai computer, ma ormai ne sono schiava: mi arrivano notifiche (inutili) ed io devo spuntarle, devo almeno spuntarle, se proprio non ho voglia di rispondere…”

Asia se ne stava seduta al tavolo della biblioteca della sua città natale, quella grande, in centro, la biblioteca dalle enormi vetrate luminose. Era in ansia per il primissimo esame post-laurea: inglese C1. Avrebbe potuto decidere diversamente, sarebbe potuta partire per una breve vacanza ad esempio, anche in solitaria… Nessuno l’aveva costretta a iscriversi al Cambridge C1 dopotutto, ma oramai la routine universitaria, con i suoi ritmi malati, serrati, l’aveva risucchiata; il danno era ufficiale: non sapeva più rilassarsi. Così, tre giorni dopo essersi laureata, ecco che, esausta come non mai e pericolosamente esaurita, s’accingeva a studiare ancora.

Lo studio compulsivo, senza tregua. Il desiderio d’altro e non riuscirci…questa situazione maniacale, se non altro, le impediva di rendersi conto del dato più fondamentale, terribile, perturbante: non aveva un soldo; era tornata a vivere dai suoi. E nessun curriculum inviato negli ultimi sei mesi sembrava essere stato preso in considerazione dai datori di lavoro.

Per tre volte, nell’ultimo mese, si era recata alla stazione dei treni, il cuore in gola, con l’intento di suicidarsi, ma poi aveva desistito: “Ho 25 anni, ho 25 anni, tutto può cambiare”, si ripeteva, quasi fosse una preghiera.

E anche adesso, senza avvedersene, mentalmente salmodiava dentro: “Ho 25 anni. Ho 25 anni. Ho 25 anni”.

Davanti a lei due computer, libri di inglese, una bottiglia d’acqua e in mano, suo malgrado, la sagoma bianchissima, regolare, del cellulare: odiato trabiccolo, inceneritore di neuroni. Lo schermo mezzo rotto, non voleva spendere soldi per comprarne uno nuovo, tanto non guadagnava, non aveva mai guadagnato se non con lavori del tutto casuali… A comprare un telefono nuovo si sentiva in colpa. Sul conto aveva cinquecento euro. 

“Chi sono io? Chi sono io?”

La fatidica domanda la perseguitava, come il mal di collo, dal mattino fino a sera.

Dormiva storta la notte: sapeva che sarebbe stato meglio, per la sua salute, non accartocciarsi a quel modo, ma proprio non riusciva a smettere di contorcersi, gobba, dentro al letto. 

La testa sprofondata sotto le lenzuola, rasentava ogni sera l’apnea: il mento ripiegato sopra il petto, le spalle alzate, la schiena tutta chiusa e ricurva in avanti, come a volersi abbracciare, sola, per scomparire, in un simil feto uovo completo in sé… Ma anche la ricerca di una fetale incoscienza non era che un tentativo inutile, un disincarnato miraggio destinato a svegliarsi di soprassalto…e con il mal di collo.  

Aveva fatto un sogno spaventoso, la notte scorsa: alle prime luci dell’alba si era svegliata in balia di brividi incontrollabili, madida di sudore.

Nel sogno camminava lungo la strada grigia, bitorzoluta (per via delle radici in rilievo) del suo quartiere; nei pressi del cinema, della biblioteca, dei giardinetti comunali, dentro i cortili dei palazzotti abitati dalle famiglie dabbene s’aggirava spaurita, senza un luogo dove dirigersi, senza nessuno da poter visitare.

Passeggiava nel nulla della sua situazione personale, in assenza di amici, obbiettivi, in assenza di qualsiasi forma di progetto, aspettando una chiamata da un datore di lavoro, che non arrivava. A impanicarla era quel solito verde brillante, familiare delle piante, erano quei palazzi squadrati e tutti ugualmente impenetrabili, ottusi, erano i cespugli bassi con le bacche rosse bagnati di luce bianca e la rugiada in superfice, a soffocarla nel profondo. Da anni si aggirava (soprattutto in estate, quando l’Università era chiusa) per quelle strade che conosceva a menadito, ma senza sentimento, senza affetto, senza storie da raccontare. Senza eventi che la legassero, realmente, alla sua terra.

Diversamente da Bologna, la città dei suoi studi universitari, le toglieva il fiato e la voglia di vivere, il pensiero della sua città d’origine: quell’aria di infanzia depressa mai recisa, mai risolta né abbandonata, nonostante l’imminenza dei trent’anni. Quella luce stupenda e indifferente, fredda ma familiare, avvolgente ed estranea la consumava. E l’entourage di quelle quattro case dove era cresciuta in periferia era una gabbia dove nulla mai succedeva e niente sarebbe accaduto.

Tutto era quadrato, lucido, sporco, pulito, morto e brulicante di incomprensibile vita. Nella realtà come nel sogno. Lei era sempre stata un’estranea a casa sua; compiuti i diciannove anni era stata contentissima di studiare fuori e ora che era tornata una sensazione di fallimento, di ansia e di abbandono era tutto ciò che le restava.

Nell’incubo Asia camminava senza meta dentro il suo cappotto rosso, fra i giardinetti scarni e un po’ indorati dall’autunno, diretta verso il parco comunale. Qualche pensionato sfaccendato incrociava ogni tanto il suo sguardo, scrutandola con occhio interrogativo, incuriosito. Alcuni bambini molto piccoli giocavano a pallone dentro un campetto con quello che doveva essere il papà. La palla rotolò fuori dalla rete, fermandosi proprio sul tragitto di Asia, ma il padre corse tempestivo a riprendersela, con un “mi scusi” se ne andò e la ragazza, rammaricata, rincasò al paesaggio sgombro di sempre.

Con un sospiro voltò la testa a destra, verso i giochi comunali, gli scivoli, le altalene…

All’improvviso un’orrenda figura le si parò davanti:

doveva essere un uomo. Magrissimo e vestito di stracci, si faceva strada strisciando sull’asfalto (ora Asia si trovava vicinissima al parco giochi, fra bambini duenni urlanti e nonnette a iosa). Una guancia dell’uomo poggiava a terra, raschiando e spargendo sangue ovunque. L’altra invece, sollevata verso il cielo e ben visibile, recava segni di una conturbante, contorta mostruosità.

I bambini sull’altalena parevano non vederlo, giocavano sereni e lui strisciava orribile, fra loro.

Solo Asia si rendeva conto della sua presenza; con freddezza, poteva osservarlo nel dettaglio.

Coperto di stracci luridi, si muoveva facendo forza sulle braccia muscolose. Le gambe invece erano secche e immobili, paralizzate. Una voglia scarlatta gli macchiava quasi per intero la guancia destra, sollevata e tumefatta verso il cielo; un occhio verde, gonfio e attonito spiccava spaventosamente vivido nel mezzo di quella carne rossastra che pareva essere stata macellata di fresco. 

I bambini continuavano a saltare, fra il sangue e gli stracci di quell’essere, mentre le nonne disquisivano (in netto anticipo) su menù natalizi e epifanie.

“L’agnello solo a Pasqua, per la Befana e per Natale i cappelletti!”

Intanto la creatura sogghignava, come a volersi prendere gioco di Asia, l’unica in grado di vederlo.

Perché Asia era certa di una cosa: se lei sola riusciva a vederlo, anche lui era in grado di vedere lei, percependola creatura pensante, giudicante.

L’occhio tumido, sanguigno dell’uomo, fisso com’era senza ombra di umanità e di emozioni sembrava quasi compiacersi della propria allucinata miseria, della propria disgrazia che lo aveva ridotto a fantasma sociale. Ammiccava rorido al panorama circostante come se fosse stato il vincitore di una scommessa crudele. Continuava a spargere sangue sull’asfalto e sul prato, strisciando come una serpe. Non provava dolore, sembrava fiero di sé stesso: un Dio che tesse nell’ombra la sua tela maciullata, nera.

Asia osservò sbigottita quella figura. 

Perché aveva perso l’uso delle gambe?

Pendevano rigide, immobili, al di sotto della cintola, sigillate in un paio di jeans logori. Era magrissimo, denutrito, ma con le braccia sapeva spostarsi con energia, a una velocità non indifferente. 

Ora già si trovava in cima a uno scivolo: seduto mostrava sempre lo stesso profilo, sorridendo malvagio. I bambini senza smettere le loro corse avevano cambiato postazione. L’uomo sfilò un accendino dai jeans e si accese una sigaretta.

Asia ebbe una folgorazione: Quest’uomo si è ridotto così perché lo ha voluto

La creatura buttò fuori il fumo, gonfiando e risgonfiando la guancia.

Quest’essere è solo il risultato di un insieme di scelte, pensieri e attitudini profondamente malvagie e antivitali strutturatasi in lui con capillare insistenza nel corso degli anni. 

L’uomo rispose a questo pensiero con una risata sguaiata, senza smettere di guardare davanti a sé, fumando sulla cima dello scivolo. Nessuno pareva udirlo.

“Ecco: ho davanti a me il Male in persona”.

L’uomo soffiò, scoprendo una fila di denti marci. Sembrava un cavallo ubriaco.

“Questo è l’essere che ha realizzato ogni suo desiderio: ogni pigrizia è stata in lui esaudita. Ogni virtù bruciata. Ogni vizio, saziato”.

Asia si riscosse dal suo ragionamento:

verde, cuperoso, irrorato di sangue; l’occhio del disgraziato si soffermò su di lei, reclinando la bocca (nella schifosa mezzaluna che emergeva)  in una smorfia sorniona, di sfida. 

Un moto di disgusto si diffuse repentino dentro Asia, un fulmine di rancore e di disprezzo l’accese, la turbò, doveva lasciar sfogare la tempesta, gridare contro l’offesa:

“Eh no caro mio. Io non sarò mai come te. Non voglio essere come te!”

Le nonnine smisero di parlare di menù per il 6 Gennaio. I bambini cessarono di giocare. Gli uccelli ammutolirono.

Asia tremava forte. Che ora era? Estrasse lo smartphone dalla tasca del cappotto; la luce del giorno intanto si era spenta, sfumata in un violetto che impregnava i passanti, le altalene e gli edifici della medesima nebbia radioattiva. Guardò dentro al cellulare: lo schermo era in tilt, un’infinità di strisce gialle e fucsia lo percorrevano, lampeggiando a intermittenza; menadi sbiadite di una discotechina guasta. Asia si sentiva raschiare in gola e non riusciva a smettere di reiterare, urlando:

“Non voglio essere te!”

Le nonnine apparivano tremolanti e sempre più piccine, a strisce verdi e viola, come sul nastro rotto di una videocassetta. I bambini piangevano, lontani.

La voce di un altoparlante soverchiò ogni cosa: l’intero paesaggio sfumò nell’indaco e infine si ridusse al nero.

“Wanted, wanted! Ricercate anime volonterose di volere la vita al di là di ogni costo, per essere pagate bene!”

“Wanted, wanted! cercate anime volere vita al di là costo, pagate !”

“Wanted, wanted! volonterose ogni, essere bene!”

*

Asia si svegliò nel suo letto, le coperte avviluppate, immersa in un bagno di sudore.

Delle curiose scosse elettriche le percorrevano le gambe, distese lunghe e irrigidite, tarantellanti di vita propria, mentre le mani le si stavano chiudendo, strette, attorno alla gola. Un brivido si insinuò dentro i gomiti e delle bocche aperte, nate non si sa come dall’incavo degli avambracci gelidi, gridavano fuoriose l’impulso assurdo: strangolati! 

Asia spalancò gli occhi più che poté, si guardò le mani, le braccia: tutto normale. Nessuna bocca dentata, non più. Che ora era? La sveglia digitale sul comò davanti al letto recitava rossa e impeccabile: 

07:00 05/10/2025 

Sette e zero zero del mattino. Cinque ottobre duemilaventicinque.

Ho sognato di ricordare un sogno, ragionando seduta in biblioteca. 

“Dove sono?”

Nella mia stanza di sempre.

“Dove vado?”

Vado in biblioteca, a scrivere questo racconto.

“Chi sono io?”

Non lo so, non lo saprò mai in via definitiva, fissa. Ma stamattina ho voglia di scrivere

Voglio scrivere. E questo è già qualcosa. 

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