TRATTO DA UNA STORIA VERA – CHE TIPO DI VERITA’ CHIEDIAMO AL CINEMA?

“Chissà quanto c’è di vero” è la domanda che mi sono posta durante la visione di Spencer, film di Pablo Larrain che è valso alla sua protagonista Kristen Stewart una nomination all’Oscar come miglior attrice. O meglio, è la domanda che mi sono posta dopo.

Perché durante il film, invece, ho guardato e basta. Godendomi l’altissima qualità della regia, della fotografia e soprattutto delle interpretazioni. Senza pensare a realismo, dietrologia, attendibilità storica, valore di cronaca. E infatti, non appena ho iniziato a interrogarmi sulla percentuale di verità nel film, la seconda domanda che mi è venuta in mente è stata: “ma in fondo, che me ne importa?”.

Eppure importa, eccome. Negli ultimi anni il genere biopic è esploso al cinema e in tv. Si sono moltiplicate le opere biografiche, i cartelli “tratto da una storia vera” si moltiplicano. House of Gucci, American Crime Story, Mank, Narcos, I Tonya, Green Book, The Dropout, sono solo alcuni esempi.

Siamo ormai assuefatti alla realtà, raccontata attraverso la lente dei prodotti di intrattenimento che consumiamo. Ma abbiamo il diritto di aspettarci una perfetta aderenza alla verità dei fatti, e al tempo stesso un intreccio avvincente? Quanta realtà ci si può permettere, in una storia costruita per intrattenere, senza renderla una noia mortale o senza distruggerne l’equilibrio formale?

Nel caso di Spencer, che racconta un episodio molto specifico nella vita della Principessa Diana, gioca un ruolo importante la messa in scena di processi psicologici impossibili da documentare. Ma una certa attendibilità è legittimo aspettarsela dalle parti che non sono ambientate dentro la testa della protagonista.

In quel caso entrano in gioco paragoni impietosi. Sia con altre rappresentazioni della celebre Lady Di, per esempio nella bellissima serie The Crown. Sia con libri, reportage e articoli di tabloid che hanno morbosamente documentato ogni aspetto della sua vita.

Quale di queste versioni di Diana è quella vera? Forse tutte, forse nessuna. È per questo dubbio che vedere un film o una serie tratta o ispirata da una storia vera ci fa infervorare tanto. Ci porta ad analizzare dettagli infinitesimali e a mettere in dubbio la veridicità dell’opera e l’onestà dei suoi autori.

Il web e la cultura del gossip ci hanno abituato a intrometterci impunemente nelle vite delle persone celebri. Al punto che ci illudiamo di conoscerle davvero. Per questo proviamo irritazione quando un’opera ci mette davanti la verità della sua parzialità: non sapremo mai chi sono davvero. Non importa quanto sia profonda l’indagine documentaristica o quanto pervasiva l’esposizione mediatica.

Basta pensare a come, anni dopo la morte di Freddie Mercury, il film Bohemian Rhapsody abbia suscitato nuove controversie sull’orientamento sessuale dell’artista e sull’impatto che la malattia ebbe sul suo lavoro. Pur essendo evidente che, nel raccontare tutto questo, la pellicola si prende diverse libertà nei confronti della verità storica.

Il biopic, la docuserie, la storia “completamente vera, tranne la parti inventate” – come recitano i titoli di testa in ogni episodio della controversa serie Inventing Anna – funzionano quando ci dicono qualcosa di noi stessi oggi. Non quando fanno un semplice riassunto della vita di persone straordinarie finendo inevitabilmente per banalizzarlo. Perché per quanto eccezionale, una vita vera non ha mai l’ordine e la chiarezza di una vita fittizia all’interno dell’invenzione artistica.

Nella nostra fame di contenuti “autentici”, spesso consumiamo avidamente prodotti che oscillano tra apologia sfacciata e violazione della privacy. L’acclamata serie Pam & Tommy ha suscitato polemiche sull’opportunità o meno di mettere in scena un periodo doloroso nella vita di due persone ancora in vita, Pamela Anderson e Tommy Lee. Il film King Richard, che ha fruttato a Will Smith un premio Oscar come miglior attore, si concentra in modo discutibile sul padre di Venus e Serena Williams, anziché proprio sulle due tenniste che hanno fatto la storia dello sport.

Nell’intrattenimento ci ostiniamo a cercare una combinazione quasi impossibile di realismo e perfezione formale. La realtà è sempre caos e zone d’ombra. Non ha una morale chiara, o ne ha molte che si contraddicono. È frammentata dallo sguardo di chi ne fa parte, anziché dispiegarsi ordinatamente sotto la guida di un narratore onnisciente.

Pretendere tutta la verità e nient’altro che la verità significa non volersi esporre al punto di vista di un altro. Avere così poca fiducia nel proprio giudizio da non poterne abbracciare uno altrui nemmeno per ipotesi, nemmeno per un paio d’ore al cinema o davanti alla tv.

Invece accettare la parzialità di uno sceneggiatore o di un regista, sapere che hanno preso la noiosa realtà che tutti conosciamo (o crediamo di conoscere) e l’hanno mescolata con il loro immaginario personale a volte può regalare più autenticità di un approccio “documentaristico”. Ne sono esempi certi musical biografici come Evita e Hamilton, o serie tv originali come Dickinson. Hanno gettato alle ortiche l’aderenza ai fatti storici per concentrarsi su sentimenti che forse i loro personaggi, nella realtà, non hanno mai provato, ma noi spettatori, nel presente, certamente sì.

In tempi recenti al biopic ha iniziato a sostituirsi il genere autobiografico, il documentario celebrativo, il prodotto creato da altri ma approvato dai diretti interessati. Speciali su dive della musica come Beyoncè, Taylor Swift e perfino Laura Pausini, l’inossidabile reality sulle Kardashian e il suo diretto erede in salsa italiana The Ferragnez, pellicole su campioni del pallone come Baggio e Totti.

È un continuo inseguire il Bianconiglio: mentre Alice cerca una logica nel Paese delle Meraviglie, noi cerchiamo la magia del cinema in storie vere di cui a volte non conosciamo nemmeno il finale. Anche nel caso i protagonisti siano ancora vivi. E anche rischiando che il finale non ci piaccia affatto.

Maria Antonietta Carroni (31), sarda nostalgica, romana per colpa di un master in cinema e tv. Inventa storie ma le piace anche commentare quelle degli altri. E usarle come occhiali per vedere meglio la realtà. “Siamo tutti storie, alla fine”.

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